Lezioni di italiano e storie di vita
Al Centro sociale Bruno, eterno bersaglio di minacce di sgombero, si lavora per l'integrazione facendo quello che Stato e Provincia non fanno o boicottano.
Il passa parola li porta ad affacciarsi alla nostra scuola. Sono sempre più numerosi e da un paio di anni hanno portato nuovi colori e nuovi suoni fra i tavoli pronti ad accoglierli. Sono i giovani ragazzi e gliuomini maturi - pakistani, afghani, curdi, bengalesi, marocchini - che stanno prendendo il posto degli africani che ora rimangono in contatto con noi per amicizia o per essere aiutati a districarsi nei farraginosi dedali burocratici che devono continuare a percorrere perché vengano riconosciuti i loro diritti.
Alle volte da soli, più spesso in coppia, rimangono silenziosi in attesa che qualcuno dei volontari gli vada incontro e, dopo aver avuto una breve presentazione utile anche a valutare i loro livelli di comprensione dell’italiano, li inviti ad accomodarsi ad uno dei tavoli. Tornano a sedersi a quel tavolo anche nelle settimane a seguire, all’inizio perché vogliono imparare a cogliere il significato dei suoni estranei che li circondano, in seguito perché desiderano appropriarsene per poter interagire con la nuova realtà. Attorno a quel tavolo i loro visi esprimono la fatica della concentrazione compromessa dai pensieri, dalle preoccupazioni che vela i loro occhi. Nel giro di pochi incontri si presentano a scuola ostentando con orgoglio le parole italiane che accompagnano gli incontri e i commiati, ma lasciano trasparire il desiderio di appropriarsi di ulteriori strumenti, anche per poter portare il loro mondo all’interno delle conversazioni: le caratteristiche dei Paesi e gli affetti che sono stati costretti a lasciare, le esperienze vissute e il travaglio di viaggi che li hanno portati fino a qui. E allora ogni argomento trattato, ogni immagine proposta per imparare nuove parole - che si tratti di cibi, lavori, di ambienti, di mezzi di trasporto - viene immediatamente affrontato in modo comparativo. Quando le parole non si trovano si ricorre ai loro telefoni. Succede che complici ed entusiasti gli studenti pakistani mostrino immagini di pietanze e quelli afghani sottolineino similitudini e differenze con quelli della loro cultura. Succede che parlando di lavoro qualcuno mostri la foto della fabbrica tessile turca in cui ha lavorato per poter proseguire il viaggio.
Il viaggio. Quasi tutti parlano di viaggio come se recitassero un rosario: sciorinano i nomi dei paesi attraversati, Iran-Turchia-Grecia-Macedonia-Serbia-Bosnia-Croazia-Slovenia-Trieste. Qualcuno inserisce le varianti Ungheria-Austria, altri l’attraversata in mare. Alla velocità dell’enunciazione non corrisponde però la durata di quei viaggi, che sono durati mesi, molte volte anni. Molti di loro hanno intrapreso il viaggio da minorenni, quasi bambini, altri hanno avevano già formato una famiglia.
La famiglia. Qualcuno comincia a mostrare le foto dei suoi cari e un po’ alla volta lo fanno anche gli altri, un gesto di riconoscimento di un legame di fiducia che si sta instaurando. Sono custodite nei loro telefoni le foto di madri, padri, fratelli, amici, di nipotini a volte nati dopo la partenza, di figli lasciati ancora piccoli fra le braccia di donne dallo sguardo triste e dignitoso. Come sono dignitose le pose e gli abiti indossati in questi ritratti bellissimi scattati perché accompagnino una partenza, la speranza in un approdo sicuro e... un ritorno. In questi momenti l’atmosfera attorno al tavolo viene attraversata dalla compassione, quel sentimento di comunione intima che unisce nel condividere le sofferenze. Il passaggio al tema del lavoro però irrompe con urgenza, è il filo rosso che unisce l’esistenza di chi è rimasto a chi è partito.
Il lavoro. Qualcuno degli studenti riesce a racimolare qualche ora di lavoro sottopagato da qualche connazionale. C’è chi ha già affrontato da due mesi l’iter della questura e ciò che gli consente di svolgere i precari lavori disponibili. Sono quasi tutti all’inizio del loro percorso di richiedenti asilo e si stanno rendendo conto di essere incappati in un ingranaggio architettato per ostacolare la loro emancipazione. Hanno affrontato i mesi invernali in strada, in attesa di un posto letto nelle strutture di accoglienza di bassa soglia dove hanno transitato prima di essere accolti nei CAS. Ora cominciano ad avere contezza degli ostacoli che li attendono in quella specie di labirinto per topi che è la legislazione in materia di immigrazione: le lentezze burocratiche elaborate ad hoc per disincentivare le richieste d’asilo, l’impossibilità di avere un tetto, e quindi non potere ottenere un certificato di residenza, senza poter esibire contratti di lavoro a tempo indeterminato, la necessità di avere un tetto per poter lavorare, l’impossibilità di poter proseguire il loro viaggio per raggiungere parenti ed amici in altri Stati europei. Si vedono condannati a vagare in una specie di limbo dove c’è chi non si trattiene dal ricordare loro che stanno espiando il peccato originale di essere nati nel posto sbagliato. Nel frattempo altri arrivano a prendono posto sotto i ponti, ai margini di una città ancora ricca e benestante nonostante gli attacchi al welfare, ai diritti del lavoro ed alla salute non manchino anche qui di creare nuovi poveri. E si affacciano stanchi ma speranzosi alla porta della nostra scuola.
La nostra non è una scuola istituzionale, esiste grazie all’impegno e all’autofinanziamento volontario di persone che hanno ravvisato la necessità di ovviare allo smantellamento dei servizi, tra i quali le scuole di italiano, rivolti ai richiedenti asilo quando anche la nostra Provincia é finita nelle mani della Lega. Ovviamente anche questa esperienza rischia di essere soppressa, perché è parte delle attività culturali e interculturali del centro sociale Bruno in cui ha sede, un edificio fatiscente e recuperato dai volontari, ceduto in comodato gratuito dalla gestione provinciale precedente. Nonostante le attività siano autofinanziate e nessuna spesa gravi sulla comunità, non mancano le sistematiche richieste di sgomberare i nostri spazi da parte di politici e gruppi di destra. L’allarme e il senso di precarietà aleggia nella nostra scuola solo per pochi istanti perché studenti e insegnanti sono consapevoli dell’importanza di mantenere in vita uno spazio comunitario, non solo fisico.