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QT n. 1, gennaio 2020 Servizi

Dolomiti UNESCO: un incubo?

Il riconoscimento di patrimonio dell’umanità è stato gestito solo in vista del marketing turistico. E il confronto con le richieste ambientaliste è stato impossibile.

10 anni fa le Dolomiti venivano riconosciute dall’UNESCO patrimonio naturale dell’umanità. Era parso un obiettivo impossibile, tanto era complesso: si trattava di un bene che sarebbe stato gestito da 5 amministrazioni provinciali e 2 regionali. Il traguardo del 26 giugno 2009 coronava 15 anni di impegno di alcune associazioni ambientaliste e di poche persone, specialmente venete, che avevano lavorato col Ministero dei Beni culturali e poi dell’Ambiente e nelle singole realtà istituzionali costruendo il progetto di candidatura. I 10 anni di gestione permettono oggi alcune riflessioni.

La Fondazione Dolomiti UNESCO (il cui CdA è formato da un delegato del Ministero dell’Ambiente, dai 5 presidenti di Provincia e da due delegati delle Regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia) ha scelto di investire in immagine: 140 appuntamenti per vendere paesaggio, con una retorica ambientalista tesa alla valorizzazione e qualche prodotto agricolo da presentare in decine di convegni. Nessun coraggio di aprire un confronto sull’efficacia del riconoscimento, nonostante le critiche degli ambientalisti alzassero il tiro su temi strategici quali gli accessi ai luoghi più fragili, l’assenza di progettualità sulla conservazione dei beni naturali e del paesaggio, le aggressive minacce provenienti per lo più dagli impiantisti, l’allargamento della caccia a specie protette.

Alla fine l’ambientalismo nazionale, forte di sette sigle a livello nazionale (WWF, Federazione pro Natura, LIPU, Legambiente, Italia Nostra, Amici della Terra e Mountain Wilderness) e di altre quattro operanti nel Triveneto, ha preparato un dossier di denuncia sulla base degli impegni che UNESCO aveva imposto alla Fondazione fin dall’epoca della candidatura e poi ribaditi dalla stessa Fondazione col piano di gestione Dolomiti 2040. Un ulteriore silenzio dell’ambientalismo sarebbe risultato incomprensibile e avrebbe portato a conseguenze ambientali irrecuperabili.

Le preoccupazioni degli ambientalisti erano state evidenziate fin dal novembre 2009 quando a Pieve di Cadore avevano elencato una serie di debolezze, imposte dai politici, insite nel riconoscimento.

L’ambientalismo chiedeva che il riconoscimento si fondasse sul monumento culturale, e non solo naturale: le Dolomiti avevano senso certo come un unicum al mondo dal punto di vista geologico, del paesaggio e della biodiversità, ma anche e specialmente un senso culturale. Si tratta infatti di un vissuto unico delle genti di montagna imperniato sulle minoranze linguistiche ladina, cimbra e friulana. Il riconoscimento non poteva quindi escludere le vallate e le contraddizioni che da queste emergevano. Ma il mondo politico ha preferito investire nella salvaguardia dei tanto mitizzati ambiti rocciosi.

Le fragilità e i contenuti della denuncia

Sono stati degnati di tutela 9 gruppi importanti. Ma altre aree, dal Sassolungo al Sella, alla catena di Costabella e dei Monzoni, alle Piccole Dolomiti, alle Dolomiti austriache, vennero trascurati con la scusa (non sempre giustificata) della presenza di una rete impiantistica troppo fitta. È così venuto a mancare l’obbligo di progettare sul lungo periodo la gestione anche economica dei fondovalle, approfondire i temi della mobilità, dell’agricoltura di montagna, delle filiere che dovrebbero lavorare in sinergia: turismo, agricoltura, selvicoltura, servizi alle popolazioni. È mancato insomma la mission più nobile della politica.

Quali le critiche? Troppa attenzione alla gestione del marchio, correndo il rischio di pensare solo al marketing, come già allora evidenziavano alcune importanti associazioni nazionali contrarie alla tutela internazionale UNESCO.

La difficoltà (ma in positivo anche la necessità) di affidare la gestione del patrimonio a un insieme di amministrazioni fra loro slegate, in aperta concorrenza, incapaci di dialogo e di visione su ampia scala.

Questo insieme di fragilità viene rilevato nel dossier presentato a dicembre a Venezia e sarà approfondito nei dettagli presso UNESCO a Parigi. Un passo dovuto: l’ambientalismo italiano doveva alzare la voce sulle minacce che si stanno diffondendo in Dolomiti: l’ampliamento delle aree sciabili, i preavvisi di avventurosi caroselli sciistici in vista delle Olimpiadi invernali del 2026, il collegamento fra la Pusteria e il Comelico, Serodoli. Non si poteva rimanere in silenzio davanti a un’aggressione alle alte quote che sta avvenendo col potenziamento di rifugi trasformati in ristoranti di lusso o le progettazioni di fantasiosi architetti che stravolgono i paesaggi più tradizionali. Soprattutto, l’ambientalismo italiano non poteva tacere davanti a una Fondazione che prima li impegna nel tracciare delle linee guida sulla gestione dei raduni motoristici in alta quota e dell’eliturismo e poi lascia il documento chiuso in cassaforte impedendone addirittura il dibattito pubblico.

Su tutti questi temi, allargati al potenziamento delle aree protette, alle proposte sulla limitazione del traffico sui passi dolomitici o gli accessi alle Tre Cime di Lavaredo, lago di Braies, lago di Tovel, sul recupero di paesaggi stravolti dal disordine urbanistico, nel censimento degli impianti obsoleti e abbandonati, o ancora nell’approfondimento della gestione delle aree protette e della elaborazione di corridoi ecologici, l’ambientalismo si è sempre confrontato, proponendo e mediando. È bene si sappia questo aspetto propositivo, visto che mai, in nessuna occasione, la Fondazione ne ha riconosciuto il valore. Anzi, nei pronunciamenti sempre più ossessivi dei politici specie veneti o dei trentini, ospitati da una stampa incapace di equilibrio, si presenta solo la facciata, comunque coraggiosa, dell’ambientalismo dei No. In 10 anni di lavoro, di collaborazione con la Fondazione, non un solo tema di quelli proposti dalla cultura ambientale è diventato progetto. Anzi, nel totale silenzio della Fondazione stanno avanzando le proposte più incredibili di aggressione alle alte quote.

Gli ambientalisti altoatesini del Dachverband, come quelli legati all’Ecoistituto Langer di Venezia, ormai parlano esplicitamente di “Incubo UNESCO”. Dove arriva il marchio UNESCO esso non fa che attirare ulteriore turismo in totale assenza di un governo del fenomeno. Procedendo così si demolisce la credibilità culturale e scientifica del riconoscimento e di UNESCO stessa; si pensi agli ultimi marchi piovuti da Parigi: l’area del Prosecco (una delle zone agricole più inquinate d’Italia) e l’alpinismo.

Un accenno va dedicato al tema della partecipazione. In Italia il mondo politico non ama il confronto serio: il conflitto è demonizzato, il processo decisionale è delegato al profilo istituzionale. E quando la partecipazione è imposta da normative europee o da percorsi di finanziamento internazionale, il tutto si riduce a un confronto frontale, che quando va bene produce un po’ d’informazione. Non viene quasi mai offerta la possibilità di un dibattito vero, di una condivisione delle scelte e specialmente rimane assente ogni possibilità sul controllo dell’avanzare di eventuali progetti. La Fondazione Dolomiti UNESCO in un primo tempo aveva tentato di coinvolgere i soci sostenitori nel progettare il piano di gestione Dolomiti 2040. Ma portato a casa il risultato, la tanto amata “cassetta degli attrezzi” è stata chiusa al confronto ed è rimasta patrimonio dei funzionari della Fondazione o del suo Consiglio di amministrazione. Impossibile riaprire, nemmeno avvicinarla.

Le reazioni della politica trentina.

Leggendo le dichiarazioni del nuovo presidente della Fondazione, il vicepresidente della Giunta provinciale di Trento Mario Tonina, si rimane sconcertati. Dalla sua risposta agli ambientalisti emerge che nemmeno sa di cosa parla. Nulla conosce dell’impegno che questi hanno profuso nella candidatura di Dolomiti a patrimonio dell’umanità, ma anche nella elaborazione progettuale. Evita ogni riferimento ai temi sollevati, come le inadempienze rispetto a quanto la Fondazione, da lui oggi diretta, aveva concordato come impegni tassativi col Commissario UNESCO fin dal 2011.

In secondo luogo difende una struttura che non conosce, con una superficialità pari solo a quella dimostrata dal suo predecessore. Almeno quando erano protagonisti Theiner o Gilmozzi gli scontri o le condivisioni avvenivano su temi concreti e non su parole ormai prive di significato come sostenibilità, investimento green o simili. Ancora Tonina nel suo comunicato cade in un passaggio piuttosto goffo. Afferma che CIPRA Italia ha appena rinnovato l’adesione ai soci sostenitori attraverso la sua presidente. L’improvvisato presidente non sa che CIPRA è composta da gran parte delle associazioni firmatarie del dossier, che lo scrivente è vicepresidente di CIPRA Italia e che la condivisione della scelta non poteva che essere stata concordata dopo un serio dibattito interno che ha portato l’associazione a condividere le critiche avanzate. Del resto, la gemella CIPRA Sudtirol, nell’estate aveva definito il riconoscimento – come abbiamo detto – “Incubo UNESCO”.

A detta degli ambientalisti i 10 anni di vita della Fondazione Dolomiti si sono tramutati in un rischio per la naturalità dell’ambiente e l’integrità dei pochi paesaggi rimasti intatti.

Lascia perplessi che associazioni che hanno sempre lavorato con l’ambientalismo nazionale, CAI e SAT, nel pieno rispetto della loro autonomia, si siano ritirati sull’Aventino e mantengano sui contenuti un imbarazzante silenzio. Addirittura il CAI Veneto ha attaccato esplicitamente come inopportuna la critica delle associazioni. Probabilmente gli interessi in gioco sulle alte quote sono più importanti della difesa del patrimonio naturale: gestione dei sentieri e dei rifugi non permettono ulteriori contaminazioni con il mondo più critico.

Nonostante la fermezza dell’attacco rimane comunque forte l’approccio costruttivo del mondo ambientalista. Nelle conclusioni del dossier le associazioni scrivono: “Siamo pronti a collaborare all’interno dell’attuale e monca realtà, purché ciò serva davvero a districare il Monumento WH dalle secche che oggi sempre più ne soffocano il significato e il valore… Chiediamo un incontro ai massimi livelli con L’UNESCO per esporre le nostre denunce, difendere le nostre proposte, sollecitare un intervento serio e risolutore, volto a liberare la Fondazione dall’abbraccio troppo spesso mortificante delle convenienze politiche locali”.

Un passaggio, questo, che se fosse recepito, rafforzerebbe l’immagine internazionale dell’UNESCO. Certo, perché l’insieme delle criticità rilevate venga affrontato, c’è bisogno di altra politica, di altra consapevolezza da parte di tutti, cominciando dal mondo economico, per la complessità delle sfide che la montagna italiana dovrà affrontare, partendo dall’emergenza dei cambiamenti climatici. Perché si affronti una simile complessità probabilmente bisogna modificare, con urgenza, la struttura e le funzioni della Fondazione Dolomiti UNESCO: la politica dovrebbe rimanere più defilata, e prevalere invece, in modo decisivo, l’investimento in rigore scientifico e progettuale.