Terry Riley
Uno sperimentatore di 83 anni
Alla veneranda età di 83 anni, al teatro Sanbàpolis, per la rassegna “Transiti”, proposta dal Centro S. Chiara, si è recentemente esibito Terry Riley, accompagnato dal figlio Gyan. Padre fondatore del minimalismo al pari dei più celebrati Steve Reich e Philip Glass, di Riley si ricordano lavori quali “In C” e “A Rainbow In a curved Air” degli anni ‘60, che hanno influenzato il kraut rock elettronico tedesco ma anche rockettari e sperimentatori come gli Who e John Cale. Musica indiana, di altri paesi e continenti gli è stata poi nel tempo di ispirazione.
Ed è stato proprio un bel viaggio, a tratti ipnotico, spesso indietro nel tempo, in musiche dalle ascendenze diverse, ma per molti versi concettualmente omogenee, nel loro rivendicare la libertà di accostarsi ed avvicendarsi.
Il concerto si è aperto con un primo brano che ricordava certe colonne sonore di film horror o scabrosi dei primi anni ’70, centrato su sonorità equivoche da clavicembalo elettronico, che richiamavano atmosfere ed immagini alla Dario Argento e colleghi di vari sottogeneri. Procedendo con brani successivi, si sono sentiti rimandi a certo progressive inglese, specialmente nei duetti piano e chitarra con veloci sequenze sovrapposte ed altre intrecciate che ricordavano Steve Hackett. A tratti poi sono invece emersi suoni più azzardati, lunghi e strisciati alla Robert Fripp.
Ma la cosa rilevante è stata che Riley non citava, o ammiccava a certa musica, perché l’ha creata proprio lui per primo e, se mai, sono poi gli altri ad essersene ispirati. Ci sono stati poi passaggi di musica indiana personalmente rielaborata, cui non sono mancati mantra vocali. Ancora, un duetto chitarra e synth dagli arpeggi folk e poi svolte più sperimentali e rumoristiche, che potevano ricordare i californiani (come lui) Grateful Dead del periodo psichedelico di “Anthem of the Sun”.
Come faccia a stare insieme tutto questo - queste ispirazioni, queste sonorità, queste ricerche - non si sa, ma ci riescono benissimo. La sensazione era che è tutto come previsto, ma nulla è prevedibile. È strano come nella nostra epoca di grande massificazione e banalità sonora certi sperimentalismi risultino oggi così pop, per alcuni versi: fruibili, evocativi, piacevoli, altri e nostri.
Impressionante il pubblico. Sala completamente piena, un record o quasi, ma soprattutto tanti giovani. E c’è da chiedersi attraverso quali canali siano arrivati alla musica di questo ottantatreenne sperimentatore. Chissà che nella musica elettronica, tanto appassionante per le nuove generazioni, non vengano ancora citati e riconosciuti certi padri sperimentatori. Sarebbe una cosa bella e giusta.
Il mio amico musicista Tony, a fine concerto, mi ha detto che Riley lavora sui cascami dei cliché. Non so se ho capito bene cosa volesse dire, ma mi pare una bella immagine: una rielaborazione di residui di stereotipi, che produce qualcosa di altro, efficace e personale.