La stalla di Bezzecca e la Masera di Levico
1) Chi si chiedesse per quale ragione sia inopportuno costruire una stalla nel mezzo dei prati di Bezzecca può scegliere fra tre risposte: a) il luogo in cui dovrebbe sorgere si trova a poco più di cento metri da una chiesa del XIV secolo, Santa Lucia, bene architettonico d’interesse culturale; b) si tratta del teatro della battaglia del 1866 che vide Giuseppe Garibaldi respingere l’esercito austriaco; c) l’attuale prato è situato al centro di un paesaggio che conserva ancora, nonostante qualche incongrua presenza, pregevoli caratteri naturali. Non bastasse, ci sono i vincoli urbanistici che richiedono una deroga motivata dall’interesse pubblico.
Non si comprende quale interesse pubblico si possa individuare in un’opera che erode irreversibilmente un pezzo di paesaggio, sfregia un monumento e oltraggia la memoria di una nazione. Né è agevole comprendere il rimpallo delle responsabilità tra gli organi istituzionali chiamati a esprimersi: la Commissione urbanistica provinciale boccia inizialmente il progetto, ma il Servizio urbanistica lo riesamina e, forse nel tentativo di tutelare la chiesa, propone una soluzione peggiorativa sul piano storico e paesaggistico; la Commissione per il paesaggio della Comunità (CPC) all’unanimità approva definitivamente l’ennesimo scempio, ma al Servizio urbanistica viene chiesto un ulteriore “parere non obbligatorio e non vincolante”, nel quale si tira in ballo anche la Soprintendenza; la quale, a sua volta, pur dichiarando “evidentemente significativa” la valenza ambientale dei prati di Santa Lucia, ritiene che non vi siano le condizioni per un vincolo di natura indiretta originato dalla chiesa.
Questa vicenda,per nulla eccezionale, purtroppo, solleva alcuni interrogativi. In primo luogo, ci si chiede che senso abbiano le solenni enunciazioni sul valore del paesaggio e dell’identità culturale se poi si sfarinano di fronte al più modesto degli interessi economico-politici.
In secondo luogo, ci si chiede che senso abbiano le diverse strutture provinciali e le loro particolari competenze, se quest’articolazione amministrativa genera una sorta di “terra di nessuno”, abbandonata al suo destino non potendosi appurare con certezza chi ne sia responsabile. Infine, ci si chiede che senso abbiano le CPC se poi, pur nella certezza delle proprie competenze, non sanno valutare l’impatto di un’opera o non vogliono assumersi il peso di un rifiuto.
Qualcuno proporrà anche in questo caso la contrapposizione, presunta insanabile, tra le esigenze della conservazione e quelle dello sviluppo economico. Contrapposizione che abitualmente prescinde da una ricerca seria - quindi faticosa - di soluzioni alternative, come una diversa collocazione oppure il riuso di un edificio esistente. A questo la politica dovrebbe essere attenta e disponibile, non a spianare la strada alla scelta più comoda ma più deleteria. Avendo infine il coraggio, se del caso, di dire “no”.
2) La Provincia di Trento e il Comune di Levico hanno annunciato nei giorni scorsi un accordo sull’uso di tre edifici dismessi: l’ex cinema Città, che la PAT demolirà per costruire il municipio, la biblioteca e una sala polifunzionale; le ex scuole elementari e medie, che la Provincia utilizzerà come scuola alberghiera; e l’ex Masera Tabacchi, che dovrebbe essere demolita per far posto a qualcosa di non ben definito.
Relativamente all’ultimo edificio, l’ufficio stampa della PAT, citando il sindaco Sartori, chiarisce che con la sua demolizione “viene risolto il problema dell’immobile, ormai ‘ecomostro’, della Masera, restituendo coerenza e dignità urbanistica al quartiere”.
Non è chiaro cosa si debba intendere per “ecomostro”, ma è evidente la connotazione spregiativa del termine. Disprezzo sorprendente, trattandosi di un edificio che, seppure dismesso, non smette d’irradiare coerenza e dignità architettonica, al pari delle vicine scuole, progettate e costruite con lo stesso impegno e lo stesso decoro civile. Se poi si pensa che si tratta di un edificio industriale, e come tale lo si confronta con gli squallidi scatoloni delle recenti zone produttive, diventa evidente che lo stigma di “ecomostro” andrebbe, semmai, affibbiato a questi ultimi.
Perché demolirla, dunque? Per recuperare banalmente un volume da utilizzare per qualsivoglia impresa immobiliare, senza la “seccatura” di dover fare i conti con un’architettura che - a dispetto del suo carattere utilitario - potrebbe far arrossire di vergogna gran parte delle costruzioni successive?
La Masera è un monumento non solo come documento storico, come testimonianza civile e sociale. È il monumento a un’architettura e a un’urbanistica capaci ancora di far coesistere serenamente, nello stesso contesto, a breve distanza, una scuola e una fabbrica. Un monumento da conservare e da restituire ai cittadini perché lo facciano rivivere, e in esso ritrovino il senso della loro cittadinanza e il legittimo orgoglio delle loro radici.
Invece, pare che la Provincia vagheggi una “valorizzazione” dei metri cubi recuperati dalla demolizione, e il Comune pare disponibile ad acconciare il Piano regolatore secondo necessità. Ma può ridursi a questo il ruolo della pubblica amministrazione? Distruggere cultura, memoria, architettura per far cassa? Distruggere un monumento (la cui rilevanza urbanistica, a Levico, non ha molti confronti) per fare spazio a un ennesimo frammento suburbano? Distruggere infine anche il valore economico incorporato nella singolare identità di quell’edificio, che in qualunque altra società civile verrebbe riusato come luogo per convegni, eventi e servizi culturali?
Si spera vivamente che questa infelice prospettiva sia il risultato di una frettolosa sottovalutazione iniziale, e che in seguito a un più attento esame la “valorizzazione” della Masera possa avviarsi con il suo restauro, seppure con gli adattamenti necessari per ospitare attività degne di quella storia e di quella architettura, capaci di qualificare l’offerta ricettiva di una città che ha saputo meritatamente conquistarsi, in passato, un posto di prestigio tra le località turistiche.