Morire per Renzi?
Grillo, Salvini, Meloni, hanno ragione. Dal loro punto di vista. Andare al voto quanto prima è nei loro interessi: capitalizzerebbero il successo del No al referendum, come pure i successi di Brexit e di Trump. Urne subito, quindi, prima che magari il vento giri, che Trump si sgonfi, che la Raggi sprofondi.
Non capiamo invece quali interessi persegua il Partito Democratico. E soprattutto non vediamo chi si curi degli interessi del paese.
Il PD dunque. O meglio, Matteo Renzi. Il quale, perso malamente il referendum, si è subito gettato alla ricerca della rivincita. Cosa (parzialmente) comprensibile dal punto di vista del suo interesse personale: non vuole passare troppo tempo a bagnomaria, teme che si scolori la sua immagine di innovatore, di decisionista, e che magari si rafforzi quella opposta del successore Gentiloni, prudente e felpato, alieno dagli scontri e abile nei compromessi. Quindi, al voto, al voto. Raccontando – e magari credendoci – di poter contare come partito su quel 40% degli elettori che avevano votato Sì al referendum; e infischiandosene dei “gufi” Bersani e D’Alema che ricordano come i conti non si facciano in questa maniera, e che nel referendum sulla scala mobile del 1984 il Sì prese il 45%, ma alle successive politiche il PCI si fermò a 20 punti in meno.
A questo punto il problema è – o meglio, dovrebbe essere - del PD: perché assecondare il segretario in questa sua personale, reiterata corsa all’azzardo? Perché dovrebbe suicidare il proprio governo, atto sempre controproducente, per andare a tutti i costi alle elezioni in un momento favorevole solo agli avversari?
Anche perché i segnali negativi da tempo erano nell’aria: il renzismo era già stato bastonato alle ultime amministrative. E non aveva dato, né dà ora, segni di reattività, di correzione di rotta, di rivisitazione di una politica: i discorsi di Renzi a Rimini, ma prima a Firenze e altrove, sono sempre uguali, improntati a un “nuovismo della volontà” ormai usurato.
Assorbita la batosta del 4 dicembre, in un’intervista a Repubblica che doveva essere a mente fredda, Renzi in realtà era sembrato Maurizio Crozza: alla domanda di dove aveva sbagliato, rispondeva: “Dovevo metterci più cuore”. La realtà identica alla parodia. E la politica ridotta a imbonimento; in presenza di una crisi mai superata, e di nuove nubi all’orizzonte.
Tutto questo infatti ha pesanti riflessi sul governo e sull’Italia.
Da quasi un anno l’attività governativa è condizionata dalle necessità elettorali. Anche il renzismo ha abbracciato la convinzione, forse realistica, di sicuro egemone, per la quale in prossimità del voto si debbano assumere posizioni demagogiche, varare provvedimenti clientelari ed evitare come una peste quelli magari giusti ma impopolari. Solo che Renzi, di suo, ha moltiplicato i periodi elettorali: prima il referendum che nessuno gli chiedeva, ora nuove elezioni di cui non si sente l’assoluto bisogno. Il risultato è che l’Italia da un anno è governata malamente.
Il caso forse più emblematico l’abbiamo avuto con la recente richiesta di una manovra correttiva dei conti da parte dell’Unione Europea. Una manovra abbastanza contenuta – 3,4 miliardi – ma ritenuta dal governo inaccettabile. E non per l’entità in sé, ma perché “siamo in periodo elettorale”.
Intendiamoci, il rigorismo imposto da Merkel è altamente discutibile e difatti è già stato messo in discussione e già sono stati strappati una serie di allentamenti (poi finiti in parte in mance elettorali pre-referendarie).
Lo si può mettere ancora in discussione? Forse sì, ma a seguito di una linea politica definita, perseguita nel tempo, supportata dalle dovute alleanze; non perché ci si è inventati un nuovo appuntamento elettorale e si ritiene di non poter prescindere da una politica demagogica.
Gli esiti potrebbero essere pesanti: per la prima volta abbiamo sentito il ministro Padoan preoccupato: “Una procedura d’infrazione europea sarebbe un problema”.
E perché mai l’Italia dovrebbe mettersi in questa situazione? Per permettere a Matteo Renzi di avere la sua rivincita?
Di questo non si sta discutendo apertamente. Ci si divide su come e quando approvare la nuova legge elettorale, sui tempi, su chi fa melina, sui vitalizi che scattano solo a settembre… Nessuno, tranne in parte il presidente Mattarella, affronta il tema vero: non si può passare continuamente da un’elezione all’altra.
Il fatto è che la classe politica, come più volte abbiamo scritto, non considera suo fine precipuo il governo, ma l’elezione, le alleanze, i posizionamenti sulle scacchiere. Tutti si affannano a proclamare “Non abbiamo paura del voto”.
Ci fosse per una volta qualcuno che dicesse: “Non è questo il momento; c’è un governo, per favore, governi!”.