Il Vescovo ha la parola
L’invito rivolto dal presidente Dorigatti al vescovo Tisi a parlare in Consiglio provinciale ha suscitato reazioni contrastanti. Vi proponiamo le considerazioni in proposito di due credenti e di un laico.
Il “buonsenso” dell’arcivescovo
Quando i discorsi tenuti da un uomo di Chiesa, di ogni ordine e grado, e da un politico, anch’esso di ogni livello, sono sovrapponibili, qualcosa non quadra. O l’uomo di Chiesa fa discorsi troppo mondani, che travalicano le sue competenze e la sua sfera di azione, oppure il politico (o la politica) avranno usato accenti troppo clericali e pieni di ossequio, parole magari dettate dalla propria visione religiosa (o dal proprio opportunismo), comunque dimentiche della necessaria laicità della sfera pubblica.
Oppure ancora c’è una terza possibili deduzione: che i discorsi di ambedue non dicano nulla. Siano la testimonianza di una afasia di fondo, seppur condita da una pregevole retorica, da accorati appelli e pure da ragionamenti condivisibili.
Francesco Guccini, in quell’ esilarante monologo-canzone intitolato “La Genesi”, contenuto nell’album “Opera buffa”, fa rivelare a Dio – in contrapposizione alle idee pericolose e scapestrate di suo figlio – la sua posizione politica: “Non sono socialdemocratico anch’io? Avanti al centro contro gli opposti estremismi!”. Ecco, questa è la definizione perfetta dell’intervento tenuto dall’arcivescovo Tisi davanti al Consiglio Provinciale lo scorso 16 dicembre.
Il discorso non fa una piega. Può piacere soprattutto ad orecchi di sinistra, meglio “socialdemocratici”. Esalta gli ex sindacalisti d’antan, come il presidente del Consiglio Dorigatti, patrocinatore dell’invito pervenuto in Curia, accettato con giubilo dall’arcivescovo. In effetti una sinistra o presunta tale, vittima di un decennale vuoto pneumatico di idee, oggi si aggrappa alle parole di un Papa sicuramente più attento di lei al disagio sociale, un pontefice addirittura capace di dire “qualcosa di sinistra”. Oppure in piccolo applaude il vescovo solo perché si schiera contro le disuguaglianze. Per una sinistra disperata sono musica parole come “libertà di pensiero”, “precarietà” relazionale e sociale, “cittadinanza” costituita dall’incontro tra diversi, e via dicendo.
Se leggiamo con attenzione, però, ci troviamo di fronte alla solita retorica trita e ritrita. Il vescovo fa bella mostra a citare intellettuali del calibro di Levinas, Arendt, nonché l’immortale Bauman (basta!) per inanellare frasi ad effetto prive di qualsiasi forza “provocatoria” (altro termine abusatissimo e ovviamente utilizzato nel discorso).
A mons. Tisi non manca l’abilità oratoria e sappiamo che lui incontra per davvero le persone “lì dove esse vivono, operano, progettano, sognano”. Ha parlato di limiti, di una comunità solidale, delle disuguaglianze, di giovani. Ecco, i giovani. La Chiesa di oggi, esattamente come i comunisti italiani agonizzanti di 30 anni fa, in preda a un triste sociologismo, tende a incasellare, catalogare, etichettare, senza poi capire nulla delle reali istanze delle nuove generazioni, trovandosi incredula davanti ai fenomeni storici. Così esiste il gruppo “giovani”, descritto al solito modo. Ed ecco il “disagio giovanile” che si perpetua da più di un secolo e che diventa lo schema per mettere dentro tutto.
Il discorso di Tisi va avanti abbastanza bene, ma il finale raggiunge l’apogeo della banalità. Sembrava di sentire parlare Dellai, con termini quali Trentino come “cantiere”, come “laboratorio politico” fino alla terrificante dizione “agenda del buon senso”. Qui c’è dentro anche Berlusconi.
Ma che buonsenso? È il Trentino del vogliamoci bene, delle pacche sulle spalle, della società coesa apparentemente votata al bene comune. Un Trentino fintamente cattolico, dove la stragrande maggioranza della popolazione è lontanissima dalla Chiesa, benché esteriormente si faccia deferente e prona. Applaude il vescovo solo perché dà un messaggio di “buonsenso”, cioè di meri auspici.
Povero Dorigatti: l’aula – così almeno dicono le cronache – ascoltava certo ma aveva in mente ben altro. L’ora non era delle migliori, le 14.30, appena prima dell’inizio dell’intervento di Rossi sulla legge di stabilità e quindi della maratona per la discussione e l’approvazione. I consiglieri avevano la testa altrove. Così nella buvette non si registrano commenti degni di nota: poca attenzione, molta distrazione, generale sollievo per aver espletato anche quella pratica. Consenso generale, tranne ovviamente per i soliti leghisti, irritati per le giuste parole del vescovo sull’accoglienza dei rifugiati. Persino Cia era d’accordo con mons. Tisi.
Il vescovo saluta, si passa ad argomenti più interessanti. L’hanno capito tutti. Il giorno dopo sui giornali una succinta quanto immancabile cronaca dell’evento. Ridicola la differenza tra i commenti, pieni di ammirazione per il vescovo, totalmente stridenti rispetto al sonnacchioso atteggiamento tenuto in aula. Ma l’ipocrisia è una moneta corrente (sia in politica sia a livello ecclesiale). Il giorno dopo ancora soltanto un giornale riprendeva il discorso. Poi più nulla. Ma forse è meglio così.
Girolamo Savonarola
Una scandalosa commistione fra due poteri
Il 16 dicembre dell’anno di grazia 2016 il Vescovo di Trento, Lauro Tisi, in piedi, sullo scranno più alto dell’emiciclo in cui si riunisce il Consiglio della Provincia Autonoma di Trento, poteva pronunciare, grazie al cortese invito del presidente Dorigatti, la sua omelia natalizia sul cui contenuto meglio di chiunque altro ci relaziona Girolamo Savonarola nel suo più che condivisibile commento.
Nello stesso giorno ci lasciava per sempre uno storico, cattolico, dello spessore del prof. Paolo Prodi, che in “Cristianesimo e potere” ha bene spiegato le ragioni del dualismo tra potere sacro e potere religioso e che, per sua fortuna, non ha assistito allo spettacolo, andato in scena a Trento, di commistione tra i due poteri: scandaloso per i laici e vergognoso per i cattolici, così parafrasando il buon S. Paolo.
Vergognoso per i cattolici, come ha dimostrato Savonarola nel precedente articolo, entrando nel merito dell’omelia vescovile di evidente impronta socialdemocratica, evitando attentamente qualsiasi accenno al dibattito, di non minore importanza delle questioni sociali ed economiche, sui diritti civili. Tema evitato ben sapendo il Vescovo -qualunque fosse il suo pensiero (i bene informati ci dicono essere ultraconservatore) - di come avrebbe immediatamente diviso l’aula risvegliandola dal torpore in cui si era adagiata fino a quel momento.
Scandaloso per i laici, cattolici e non cattolici, il cui principio di separazione dei due poteri, “Libera Chiesa in libero Stato” (o “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” se si preferisce il precetto evangelico alla enunciazione cavouriana) rimane un imperativo categorico, mai violato prima neppure dal più cattolico tra tutti i democristiani che hanno presieduto l’aula consiliare.
Rimane da chiedersi il perché. Perché un presidente, certamente laico qual è Dorigatti, ha voluto invitare il Vescovo a parlare solennemente dallo scranno più alto di quel Consiglio che rappresenta l’intero Trentino?
Perché il Vescovo avrebbe parlato di temi cari alla sinistra? Può essere. Anzi, è probabile. Per un ex sindacalista di sinistra di assoluta onestà intellettuale quale è Dorigatti le parole del Vescovo sul tema sociale e della accoglienza non potevano che essere musica per le sue orecchie. Il problema è però che Dorigatti avrebbe potuto/ dovuto porsi il problema del metodo, prima ancora che del merito, relativo all’invito al Vescovo a parlare in Consiglio provinciale.
Ci siamo tutti indignati (immagino anche Dorigatti) per l’invito del rettore della Sapienza di Roma a Papa Ratzinger in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. E ci siamo tutti indignati per il metodo, prima ancora che per il merito, perché un Papa, o un Vescovo, non lo si invita in sedute solenni di consessi pubblici e pluralistici a spiegarci il loro mondo e ciò a prescindere dal merito. Non può essere che si invita Papa Francesco perché parla dei poveri e si lascia a casa Papa Ratzinger perché parla contro gli omossessuali o della verità di Cristo rispetto alle altre religioni. Vescovi, Papi, Iman, Rabbini, Sciamani e sacerdoti delle più svariate e tutte rispettabili religioni, per loro natura di parte, non si invitano laddove il pluralismo regna sovrano e il perché non dovrebbe neppure essere spiegato. Non si invitano e basta.
Ci si dirà che il Vescovo rappresenta una pezzo di società e va ascoltato. Vero. Come altri rappresentanti di pezzi altrettanto importanti di società: dai rabbini, agli iman, ai presidenti di ordini professionali, sindacali e via discorrendo. Vanno ascoltati con attenzione nelle sedi opportune: nelle commissioni come nei dibattiti, ma non credo che a Dorigatti sia venuto in mente di invitare i rappresentanti di pezzi di società a parlare, senza dibattito, dallo scranno più alto della sede del Consiglio provinciale. Così fosse, mi candido subito come Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Rovereto e ritiro, a invito pervenuto, le critiche di questo mio breve intervento.
Concludendo. Per il principio dai cattolici sempre invocato della “reciprocità” (si fanno moschee in Italia solo se ci lasciano costruire chiese nei Paesi a maggioranza musulmana), ci aspettavamo di sentire il discorso del presidente Dorigatti in Duomo a Trento in occasione della messa di Natale, ma non credo i fedeli abbiano avuto tale possibilità. Pazienza. Sarà per il prossimo anno.
Mauro Bondi
Lauro Tisi e la Rivoluzione francese
La speranza è che il messaggio affidato al Palazzo, nel cuore della politica trentina, non venga archiviato troppo in fretta. Io lo ascolto dagli scranni del pubblico, in piazza Dante, dove non mi sedevo da anni, con altre dieci persone, forse meno, più i giornalisti.
A preoccupare l’oratore sono le “disuguaglianze”, fra ricchi e poveri, fra giovani e anziani, fra “noi” e “loro”, i nuovi inquilini che arrivano a ondate. Lo diresti un politico di sinistra che ci mette passione. L’aula, affollata, lo ascolta in religioso silenzio. Io scruto da lontano gli uomini della destra, impassibili. Per la destra le disuguaglianze non sono un male, sono la libertà motore dello sviluppo, che accende il mercato e innova la scienza e la tecnica. In nome dell’uguaglianza la sinistra si è spinta invece fino alla soppressione della libertà. Alla fine applaudono tutti, con rispetto. “Ridurre le disuguaglianze”, dunque ma - aggiunge Lauro Tisi, il vescovo di Trento - anche “valorizzare le differenze”. Disuguaglianza e differenza non sono sinonimi, sono anzi in tensione, come liberté ed égalitè fin dalla Rivoluzione francese. Il 1789 fu uno shock per la Chiesa cattolica. Ma, mi domando, l’aula che ascolta e applaude si divide ancora fra destra e sinistra? O sono obsolete queste categorie con cui io mi rappresento, “in piazza”, anche la società? Il vescovo non le usa, cita Sigmund Bauman ed Emanuel Levinas. E Hannah Arendt: “La politica siamo noi, in quanto esistiamo al plurale”.
Di libertà ed eguaglianza (e di pace, fraternité) è però intessuta anche la Costituzione italiana. Anche il “sì” e il “no” su cui ci siamo accapigliati nel referendum mi paiono oggi un discrimine inadeguato, anzi inservibile. Che Costituzione hanno difeso quei consiglieri, e i cittadini che li hanno eletti, che temono che una casa di preghiera si trasformi in un’aborrita moschea? E quei sindaci che la volevano riformare, ma poi proclamano che “per i profughi qui non c’è posto”? Nell’indicare un cammino su cui l’eguaglianza e la differenza sono in tensione, il vescovo fa sperimentare a noi, “affaticati”, la sofferenza della politica.
“Parlo anzitutto alla mia parte”, aggiunge pensoso Lauro Tisi. Jürgen Habermas, nel riconoscere prezioso il contributo al bene comune delle comunità religiose, chiede loro, in una società secolarizzata e post-secolare, di argomentare in termini razionali. E così il vescovo non nomina mai Gesù di Nazareth. Sarebbe stato più credibile, in questa occasione, riconoscere la sofferenza anche della Chiesa cattolica. Da maggioranza che era, anzi totalità, è oggi una comunità di minoranza, con il rischio di diventare settaria. Come si sta interrogando la Chiesa su come conciliare uguaglianza e differenza?
Ha scritto la teologa Chiara Valerio: “Accetterebbero mai gli uomini di vedersi rappresentati da un concilio o da un sinodo di sole donne che prendono decisioni anche per loro? Le ridicolizzerebbero, ne riderebbero, o insorgerebbero”. Che dire poi di un’etica sessuale e familiare definita da un clero di maschi celibi, anziani, a orientamento eterosessuale?
Nel recente convegno a Trento in ricordo di Lutero, a proposito di dialogo fra le religioni, è stato Paolo Naso, un protestante, ad affermare che l’insegnamento confessionale dell’unica religione cattolica è un privilegio improduttivo. I vescovi, progressisti, schierati in prima fila, e Tisi fra essi, non hanno fiatato.
Sulla laicità, con gli esempi si potrebbe continuare. Gesù, di fronte all’impossibilità di conciliare uguaglianza e diversità, accettò la morte in croce, condannato dall’autorità ebraica e dal potere romano. Ma cos’è in fondo la risurrezione, se non l’invito ai suoi seguaci a riprovarci senza stancarsi, nella storia, fino al suo ritorno? Senza inorgoglirsi per i successi, senza disperare per gli insuccessi. ?
Silvano Bert