L’ego di Eco
Il mio primo incontro con Eco è stato in quarta ginnasio leggendo il suo Elogio di Franti dove, con magistrale sarcasmo marxisteggiante, frantuma un pilastro della letteratura nazional-popolare italica. In pieno boom (il saggio è del ‘66) Cuore aveva perso quell’aura di sacro vademecum valoriale da cui era avvolto durante l’Italia post-unitaria e fascista. Tuttavia manteneva una certa importanza simbolica, giacché sulle sue pagine si era posato lo sguardo di generazioni di italiani, inclusi i nostri padri. Il libro consiste di cronache e racconti impastati a vago socialismo paternalista, ricoperti da una glassa di patriottismo. Una sitting-duck per il giovane Eco che proprio in quegli anni edificava la sua notorietà a colpi di editoriali dissacranti.
De Amicis affetta l’umanità in buoni e cattivi con un colpo di scimitarra. Più o meno come nei telefilm di Chuck Norris o nei fumetti di Batman. Nel mondo di Edmondo la virtù sta tutta dalla parte del narratore, la sua famiglia, la sua cerchia, il ceto medio-borghese, le istituzioni, il popolo minuto (animato da spontanea auto-sottomissione sociale). La salute dell’organismo in cui palpita Cuore è però insidiata dai batteri: gli emarginati, gli incazzati... e soprattutto lui, il paradigma della cattiveria in erba: Franti. Su questo scenario bicromatico, senza sfumature, Eco inverte l’ottica elogiando la condotta deviante quale reazione giustificata contro una società perfida e ipocrita. Nella tesi di Eco l’essenza asociale di Franti si sublima in eroismo, trasudando simpatia. Ricordo che questo capovolgimento di prospettiva aveva affascinato noi studenti, come un gioco di prestigio. Però a me l’incantesimo durò il tempo di chiedermi: ma come... Franti è un bullo, mena i più deboli, molesta le ragazze, rompe i coglioni a tutti... che modello positivo può rappresentare uno così? Nella mia infanzia, fra strada e giardini pubblici, avevo spesso avuto a che fare con ragazzotti di quella risma e non ero disposto ad accordare sconti. E seguito a pensarla così.
Con gli anni ho capito che ribaltare la prospettiva è pratica intelligente e motore di progresso. Non è forse Guglielmo, proprio ne Il nome della rosa, a dipanare la matassa grazie al suo modo non convenzionale di vedere le cose? Ma ho capito pure che la critica paradossale è il potente artificio a cui ricorrono tanti intellettuali per costruirsi un “ego pubblico” più spavaldo e intrigante. Senza magari preoccuparsi troppo del rischio di pagare pedaggio a esiti... bizzarri.