La cultura che disegna se stessa
Autoreferenziale è una parola di moda che nel tempo ha via via diluito la sua accezione filosofica per divenire un aggettivo buono per molti usi. Così oggi c’è chi non si fa problemi a etichettare come autoreferenziale un circolo di ciclisti o una mamma egoista. Per recuperarne il significato originario basta osservare il celebre disegno di Escher. La mano sinistra disegna la destra e... viceversa. Una situazione paradossale, impossibile in natura perchè non esiste organismo o sistema in grado di autoalimentarsi (potremmo forse nutrirci mangiando noi stessi, o volare tirandoci su per gli stivali?). Ma, se nel mondo fisico certe cose non accadono, nulla vieta al pensiero di generare opere autoreferenziali. Così Pirandello immagina sei personaggi che recitano se stessi in un loop di teatro nel teatro. E Steve Reich scrive brani che reiterano micro-variazioni sull’unica frase musicale. Ma oltre a quadri, commedie e sinfonie può anche la cultura di un territorio configurare un sistema autoreferenziale? Può. Levitiamo con la fantasia immaginando una provincia che ha impiegato parte delle sue ricche risorse nell’edificare una burocrazia onnipresente e formalista. Una provincia in cui le scelte culturali sono a discrezione di politici con poche idee ma con tanta determinazione nell’acquisire visibilità da quattro soldi tra le mura domestiche. Una provincia in cui l’intraprendenza privata è spenta da una bulimia pubblica che fagocita spazi senza restituire opportunità.
Una provincia in cui tanti artisti e intellettuali non si mettono in gioco perchè ormai adattati a sopravvivere in quell’habitat tiepido e protetto. Ecco, un sistema culturale come questo (che somiglia un po’ al nostro) è autoreferenziale. Si autoalimenta celebrandosi al suo interno. Ma non esporta nulla, perchè non sa inventare, o meglio, non è allenato e motivato a farlo. È questa la politica culturale che beatamente disegna se stessa, incapace di puntare la matita su altri fogli per concepire forme nuove.