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Il califfato redivivo

Il Medio Oriente come i Balcani di cent’anni fa?

Si parla molto dell’ISIS o IS (lo “Stato Islamico”) in questi ultimi tempi e il mondo guarda sconcertato a questa nuova realtà impostasi sulla scena internazionale. È ben noto che questa organizzazione ha occupato in breve tempo larghe parti della Siria nord-orientale e dell’Irak nord-occidentale, rompendo vecchie frontiere fissate da inglesi e francesi al tempo della dissoluzione dell’impero Ottomano e creando un territorio su cui è stato proclamato un redivivo califfato islamico. Analizziamo questi due aspetti, il primo di carattere politico-militare, il secondo di carattere più (apparentemente) religioso.

Anzitutto l’ISIS si proclama paladino dell’Islam sunnita e, secondo tutte le fonti bene informate, è stato ampiamente armato e foraggiato soprattutto dalle due grandi potenze sunnite dell’area, l’Arabia Saudita e la Turchia di Erdogan, sin da quando iniziò le sue operazioni in Siria per rovesciare il regime di Assad, l’autocrate appartenente a una setta di origini sciite, gli alawiti. Bisogna avere bene in mente questi inizi, perché ciò che ha indotto Turchia e Arabia Saudita (col tacito assenso e forse qualcosa di più di Israele) a sostenere l’ISIS è un disegno strategico preciso, che si capisce guardando la carta geografica del Medio Oriente: spezzare, costi quel che costi, l’unità territoriale del cosiddetto”arco sciita” che dall’Iran giunge, via Irak e Siria, sino al Libano e al Mediterraneo. Iran, Irak, Siria e Libano sono paesi a maggioranza sciita (i primi due) o comunque governati da sciiti (gli altri due).

Lo spazio militarmente occupato dall’ISIS si incunea letteralmente in questo arco, spezzandolo e oggettivamente indebolendolo dal punto di vista geo-politico. L’operazione forse non sarebbe stata sgradita neppure agli americani se, a un certo punto, l’ISIS non avesse mostrato di essere tutt’altro che un pupazzo in mano alle potenze sunnite locali e ai loro occulti potenti spalleggiatori. L’assalto ai Curdi, il tentato sterminio di Yazidi e di altre piccole minoranze anche cristiane ha indotto gli Stati Uniti a intervenire con azioni di contenimento affidate alla forza aerea, subito guardate con sommo fastidio dall’alleanza sunnita (Arabia Saudita, Turchia e altri stati sunniti del Golfo). Quest’ultima era chiaramente disposta a chiudere un occhio e anche due sulle nefandezze dell’ISIS, pur di vedere realizzato il piano di cui s’è detto. Lo sterminio di Yazidi o Curdi poteva ben valere la posta in gioco: rompere le unghie all’Iran sciita, isolare e votare al tracollo il regime alawita dell’odiato Assad.

L’ISIS ha compiuto poi un errore strategico fondamentale, decapitando americani ed europei e fornendo agli USA, con lo shock generatosi nell’opinione pubblica, la legittimazione a forzare i recalcitranti paesi sunniti a effettuare una vera e propria conversione a U nella loro politica nell’area: da sostenitori dell’ISIS a suoi nemici, indotti (costretti) da Obama a formare una più vasta santa alleanza per sconfiggere la creatura ribelle divenuta incontrollabile.

Qui si evidenzia una chiara divergenza di vedute tra USA e stati sunniti: agli USA, che dall’attacco alle Due Torri in poi hanno sempre avuto una sensibilità particolare per tutto ciò che è legato al terrorismo, la carta bianca concessa da Arabia Saudita e Turchia all’ISIS non va a genio. Gli USA probabilmente condividono l’opzione strategica di spezzare l’arco sciita, ma non al prezzo di ritrovarsi nell’area uno stato terrorista, potenziale base e fucina di disordine nella zona e nel resto del mondo. Com’è noto, la realtà di un Irak diviso in tre aree indipendenti (sciiti, curdi e sunniti) è ineluttabile, ma agli USA preme che l’area sunnita non sia egemonizzata dall’ISIS.

Molti osservatori hanno rilevato che l’ISIS ha fatto saltare tutti gli schieramenti: l’Iran appoggia i Curdi insieme agli americani; la Siria di Assad ringrazia gli USA per i bombardamenti anti-ISIS sul suo territorio; l’Arabia e la Turchia, alleati storici degli USA, si ritrovano imbarazzati a far marcia indietro sull’ISIS e a partecipare obtorto collo alla repressione di questa loro creatura.

Oggi si parla, nelle alte sfere dei comandi americani, di una guerra che andrà avanti per anni. Ma - ci chiediamo- come saranno le alleanze in Medio Oriente fra qualche anno? Paradossalmente, l’Iran e la Siria sono già oggi i principali e più fidati alleati degli USA nella lotta al terrore di marca sunnita dell’ISIS.

Il mito del califfato

E veniamo all’altro aspetto, quello più religioso, o meglio politico-religioso. L’ISIS ha orgogliosamente proclamato di essere un califfato. Storicamente il califfo era un “vicario del profeta di Dio” (khalifa rasul allah), ossia un luogotenente o successore di Maometto nella funzione di guida politica della comunità; più tardi, a partire dalla dinastia dei califfi omayyadi (680-750) di Damasco, il titolo fu semplificato in “vicario di Dio” (khalifa allah) in terra, ereditato pure dalla successiva dinastia dei califfi abbasidi (750-1250 ca.) che fondò Baghdad.

Il califfo in realtà non aveva mansioni religiose, non era affatto un “papa”, ma piuttosto un defensor fidei, incaricato di difendere la comunità musulmana dai nemici interni ossia gli eretici (gli sciiti in primo luogo) e dai nemici esterni. Lo stile di vita delle corti califfali era informato al lusso e alla bella vita: poeti, musici e danzatrici, feste e ricevimenti a base di abbondanti libagioni vi avevano luogo, spesso attirando gli strali di certi settori dell’Islam più ortodosso e bacchettone o di quello ispirato all’ascetismo dei sufi.

Al culmine delle sue fortune il califfato controllava un territorio che si estendeva dall’Africa settentrionale all’Asia Centrale e poteva ben essere paragonato al Sacro Romano Impero, che peraltro territorialmente fu sempre un’entità assai più limitata. Questo ruolo di defensor fidei oggi rivendica velleitariamente il capo dell’ISIS, al-Baghdadi, dal nome che ricorda certamente a tutti i musulmani che l’ultima sede califfale fu proprio Baghdad, distrutta dai mongoli di Hulagu nel 1258. E non è un caso che il suo furore si eserciti oggi sugli sciiti di Siria e Irak, con una determinazione e una spietatezza sconosciute ai califfi classici, di solito capi politici molto pragmatici, inclini al compromesso e a trovare un modus vivendi quantomeno con gli sciiti moderati.

Ora, non c’è oggi musulmano che sotto sotto non rida alla pretesa di al-Baghdadi di resuscitare con l’ISIS l’antico califfato nel deserto a cavallo tra Siria e Irak; sarebbe come se oggi un gruppo di esaltati saltasse fuori armi alla mano pretendendo che lo Stato Pontificio è stato restaurato tra i monti dell’Appennino a cavallo tra Lazio e Abruzzo. Eppure le propagande delle due parti hanno cominciato a battere la grancassa. L’ISIS conta sul mito del califfato per reclutare le teste calde che pare abbondino non meno nelle periferie e nei suburbi di Londra o Parigi che in quelli delle megalopoli mediorientali; i media di mezzo mondo in Occidente hanno pompato ad arte la pericolosità del califfato per preparare l’opinione pubblica ad accettare una guerra più o meno chirurgica che si protrarrà - come s’è detto - per anni. Nel frattempo le stesse istituzioni religiose sunnite più prestigiose, da quelle di al-Azhar del Cairo alle moschee sorte in Europa tra le comunità di emigrati, si sono affrettate a sconfessare e condannare l’ISIS e la sua pretesa di resuscitare il califfato, implicitamente mettendo in dubbio la loro autorità; e qualche dubbio dev’essere sorto anche tra i governanti turchi e arabo-sauditi sulla pericolosità di un movimento che è evidentemente sfuggito di mano ai suoi sempre meno occulti pupari.

I rischi per Israele

Ma il paese più perplesso (e silenzioso) dell’area sembra oggi Israele, appena uscito da una trionfale vittoria sui palestinesi di Gaza: d’un tratto si ritrova all’orizzonte un ben più pericoloso nuovo nemico e vede i suoi vecchi storici avversari, Siria e Iran, arruolati sottobanco dalla santa alleanza messa su dagli USA (e con la benedizione del loro protettore, la Russia di Putin).

In effetti per Israele vengono oggi al pettine i nodi di una politica che da oltre mezzo secolo gioca col fuoco delle frustrazioni e del revanscismo arabo-palestinese: c’è anzitutto la prospettiva preoccupante di vedere l’ISIS dilagare da un giorno all’altro in Libano o in Giordania, dove le loro avanguardie si sono già affacciate. Perché un ISIS contenuto e magari sconfitto dagli USA e la santa alleanza in Irak e Siria, potrebbe cercare una facile rivincita e un sicuro successo propagandistico attaccando brutalmente Israele dal Libano o dalla Giordania. E potrebbe attaccare con armi probabilmente assai più sofisticate dei razzi rudimentali lanciati dal formicaio di Gaza da parte di Hamas. L’ISIS, si ricorderà, è nato e opera tuttora in Siria, dove i vari gruppi ribelli sono sospettati di avere sottratto ingenti materiali chimici agli arsenali di Assad. Il sempre sbandierato pericolo nucleare dell’Iran sbiadisce di fronte alla ben più concreta minaccia di un attacco con armi di distruzione di massa dell’ISIS. Anche Israele, incredibile dictu, oggi tifa per Assad...

Obama, insomma, ha buone, buonissime ragioni per mettere in riga gli stati sunniti dell’area e cercare di sradicare l’ISIS, prima che la situazione possa scivolare di mano e prendere una qualche piega imprevedibile. Davvero oggi il Medio Oriente è una polveriera che non può non ricordarci i Balcani di cento anni fa alla vigilia dell’attentato di Sarajevo.