Dal blocco-notes di un maestro di campagna
8 maggio 1987. E’ giunto l’invito, per i bambini della mia scuola, a fare dei disegni sugli alpini per poi esporli e premiarli nella nuova sede dell’ANA. E’ una iniziativa locale e tutti i bambini vi partecipano. Gli insegnanti non hanno detto né sì né no. Qui gli alpini sono un fenomeno del paesaggio, un elemento della natura più che un’istituzione culturale.
9 maggio 1987. Sabato. I bambini stanno preparando i 120 disegni della mostra con assoluta dedizione all’iconogafia tradizionale: montagne, aquile, cappelli con la piuma, fiaschi di vino, bandiere italiane.
Qualcuno, immigrato dalla pianura, scambia gli alpini per gli alpinisti. Qualche bambina si ripiega sulla miniaturizzazione: alpini-infanti, facce d’angelo, boccoli e stelle alpine in mano.
Una bambina spinge l’iperbole dei simboli fino a dar vita ad una nuova mitologia: montagne trasformate in enormi cappelli alpini sovrastano piccoli, sparsi paeselli montani; tortuosi torrenti originati da giganteschi fiaschi di vino viola collocati al di là dei monti nel paradiso degli alpini; aquile grandissime che si staccano dalla fronte rocciosa dei cappeli per volteggiare beffarde sopra un paesaggio di cuccagna ma oppresso dal cielo tricolore e intristito dall’assenza di vita. Un momento funebre. Un paesaggio post mortem.
Altri disegni incrinano, volendo l’opposto ben inteso, il mito della convivialità alpina rappresentando uomini gonfi di vino, le facce tristi di chi ha vomitato anche il fiele, il bisogno adolescenziale, ritardato fin oltre la decenza, di stare insieme, di parlarsi addosso, di darsi le pacche sulle spalle, di avere dei segni di riconoscimento e di separatezza.
II disegno più bello e più vero (perché mi racconta più storie) è quello di D., un bambino che soffre di molte limitazioni: al centro un gigantesco soldato, mostruoso come un generale di Baj, spicca su un fondo blu cupo lacerato da geometrici ma enigmatici frammenti luminosi che sembrano ruotare intorno all’alpino: resti di un universo frantumato, irriconoscibili bagliori, ultimi fuochi di un incendio universale o di un cataclisma che ha sconvolto l’ordine e la posizione naturale delle cose.
Ha sorriso D. quando gli ho detto che quell’alpino mi sembrava un ultracorpo. Un sorriso d’approvazione? d’affetto? d’intesa? O un sorriso malizioso? O che altro ancora?
12 maggio 1987. Leggo sull’Adige la settimanale rubrica educativa di Franco Bertoldi. Oggi ha un titolo impagabile: La pedagogia dell’alpino. Leggo e rileggo l’articolo. E’ scritto con la mano sinistra mentre la testa era altrove. In sostanza ci ripete (ma quante volte l’abbiamo sentito?!) che gli alpini testimoniano l’esistenza di una forte cultura, che ci danno una stupenda lezione di solidarietà, che hanno i valori, i gesti non affettati, la parola non artificiosa, la fermezza, la semplicità, l’essenziale. Per questo costituiscono una forza educativa, un gruppo di riferimento, un modello.
Mi sono immalinconito. Mi aspettavo per lo meno qualche riferimento più interno, qualche riflessione pedagogica, qualche indicazione meno gratuita. Devo fornirla io, professore?
14 maggio 1987. Ho deciso di scrivere una lettera a Franco Bertoldi, professore di pedagogia all’Università di Trento, noto per molti motivi ai maestri. Press’a poco come questa.
Piero Jahier, all’origine settant’anni fa anche dei suoi luoghi comuni, professore, credeva che l’esercito in generale e il corpo degli alpini in particolare fosse un’istituzione pedagogica privilegiata perché l’uomo tutto era in suo completo potere. E poiché educare voleva dire innalzare, illuminare e redimere, Jahier in "Con me e con gli alpini" racconta la storia (pedagogica) di una redenzione. La storia dell’alpino Somacal Luigi, cretino dalla nascita, stronco, macia, burattino e zimbello della compagnia, che si adegua sotto l’insegnamento paterno (paternalista! professore, glielo assicuro) del tenente Jahier, alle regole, alle leggi, alla vita del gruppo. Impara molte cose, soprattutto a marciare e a sparare.
Alla fine del suo processo di apprendimento, che, è un processo d’integrazione, partecipato, nella macchina militare, Somacal Luigi inaugura il suo nuovo sguardo di redenzione. Pensi: ora che anche lui è pronto per il fronte e per la morte si sente felice e sorride al tenente! Una efficace pedagogia di guerra verificata su un caso estremo.
Altra forza educativa io non riconosco, nelle istituzioni militari, neanche oggi.
Ma ascolti quest’altra storia, professore. Anch’io conoscevo una sorta di Somacal Luigi, alpino ma a trent’anni sempre bocia, sovraccarico di soprannomi infamanti, tuttofare nel gruppo, sempre un po’ brillo perché ci vuole lo stupido per sopportare la noia. Non so come, ma per una reviviscenza interiore, un giorno piantò baracca e burattini e se ne venne in città. Trovò una casa e una donna che lo sposò, Così, dopo una una vita passata a sopportare volgari battute alpine sulla propria virilità.
Ora ha dei figli ed è un cittadino come tanti altri, magari adesso è anche uguale a tanti altri: nessun soprannome, nessuno lo segna a dito. nessuno lo obbliga a bere.
Ecco, le ho raccontato un’altra storia di redenzione che, all’opposto, enfatizza i valori della crescita personale, dell’autonomia, della liberazione dal conformismo della tribù. E’ la grande forza educativa della città. Ma di questo ne parleremo ancora, Professore.
22 maggio 1987