Sanità negata
L’ultima trovata della Pat: interruzioni di gravidanza gratuite per italiane ed extracomunitarie, ma bulgare o romene devono pagare. Anche se non possono, con le inevitabili, dolorosissime conseguenze.
Un figlio che non ti puoi permettere. Incinta dopo una violenza. Sono tante le cause per cui una donna può decidere di interrompere una gravidanza. Soprattutto se è povera. Ma, trovato il coraggio di recarsi presso la struttura sanitaria per abortire, a Trento alcune donne scoprono di dover pagare 1300 euro: troppi per loro, e sono costrette a rinunciarvi. Per proseguire una gravidanza dolorosa, oppure, nel caso peggiore, rivolgersi al sottobosco degli aborti clandestini.
Com’è possibile una cosa del genere? Come mai non interviene il Servizio Sanitario? E tutto questo per 1300 euro, tanti per delle persone in difficoltà, una goccia invece nel mare della spesa sanitaria. I soldi valgono davvero più della salute? Perla Provinciadi Trento, sembra proprio di sì: con una delibera del maggio 2010,la Giuntaprovinciale ha anteposto al diritto alla salute le proprie - misere - esigenze di budget.
Stiamo parlando di donne straniere, ma dell’Unione Europea, in pratica soprattutto rumene. Il problema nasceva con l’entrata in vigore, nel febbraio del 2007, di un decreto sul diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’UE: il Ministero della Salute, seguendo l’art. 32 della Costituzione, secondo cui ricevere prestazioni sanitarie è un diritto fondamentale, prevedeva l’iscrizione obbligatoria al Servizio Sanitario per i cittadini comunitari residenti sul nostro territorio per un periodo superiore ai tre mesi. L’adesione al SSN era possibile solo quando il richiedente potesse dimostrare di lavorare o studiare nel nostro Paese, o fosse in possesso di un formulario comunitario per le spese mediche. Chi non avesse tali requisiti, era escluso da qualunque forma di assistenza sanitaria. Male. E difatti una circolare di un anno dopo, febbraio 2008, correva ai ripari, assicurando comunque le cure indifferibili ed urgenti, tra cui anche la “tutela sociale della maternità e interruzione volontaria di gravidanza, a parità di condizione con le donne iscritte al SSN”.
In Italia sì, a Trento no
Tutto a posto? In Italia sì, ma a Trento c’è la mitica Autonomia. E così, con propria delibera, dopo due anni la Provinciaha posto incredibilmente alcune condizioni: l’interruzione di gravidanza rimane gratuita “solo nel caso in cui la stessa sia ritenuta una prestazione medicalmente necessaria”. Per chi non volesse capire, si precisa: se la donna sceglie volontariamente di abortire, l’intervento “è a totale carico dell’assistita, poiché non è previsto il relativo rimborso nell’ambito della normativa comunitaria vigente”. Cioè: l’UE non prevede l’obbligatorietà di un rimborso economico da parte del Paese di origine della donna; ela Provincia ha quindi pensato di salvaguardare il proprio budget discriminando tra i diversi tipi di aborto.
Il Trentino però è in Italia, dove l’interruzione di gravidanza è autorizzata dalla legge 194 del ‘78 “in circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. In nessun caso il servizio è a pagamento. Che senso ha allora, la delibera della Giunta?
Volevamo chiederlo all’assessore alla Sanità Ugo Rossi. Notoriamente più furbo che santo, l’assessore si è guardato bene dal risponderci. Abbiamo allora chiesto informazioni alla dirigente Anna Maria Trenti, responsabile dell’ Ufficio per la qualità dei servizi, che però ha preferito passarci il Servizio Economia e il funzionario Andrea Maria Anselmo dell’Ufficio Finanziamento del Servizio sanitario provinciale, perché “è stata una decisione del servizio economia, meglio parlare con loro direttamente”. Così arriviamo a un primo punto: è tutta questione di soldi.
Ma non è finita: Anselmo preferisce non risponderci (“è meglio che risponda l’azienda sanitaria stessa”), e ci indirizza al referente regionale mobilità internazionale, Giuliano Cattoi. Finalmente Cattoi, dopo questo lungo tira e molla, ci risponde che l’ordinanza è lecita, poiché rispetta il decreto legislativo del febbraio 2007: in realtà però la Provincia riporta fedelmente tutta la circolare, tranne nel punto in cui ci si riferisce all’interruzione di gravidanza, dove se ne discosta, eliminando la tutela della maternità e dell’aborto. “La nostra scelta è la stessa perseguita anche dal Veneto - risponde Cattoi - Il Trentino non è l’unica regione in cui si è scelto di ritenere l’interruzione volontaria di gravidanza una prestazione non urgente e indifferibile”. Insomma, lo hanno fatto anche altri, quindi si può fare. Dunque,la Provincia sembra ispirata, in prima istanza, da motivi economici, perché già in credito, sul fronte dei rimborsi sanitari, con altri Paesi dell’Unione. In realtà è un pasticcio vergognoso.
Anzitutto va ricordato che l’interruzione di gravidanza volontaria è gratuita per i cittadini extracomunitari grazie all’art. 35 del Testo unico in materia di immigrazione (bene!), e nel caso di persone particolarmente indifese - come le donne ridotte in schiavitù - è prevista l’iscrizione al SSN senza l’obbligo di possedere i requisiti richiesti agli altri cittadini. Due volte bene. Invece, per le cittadine comunitarie, salta fuori una discriminazione paradossale, proprio perché riservata unicamente a loro, e per motivazioni puramente economiche. Nella delibera infatti la Giuntapuntualizza di aver accertato che nel territorio esistono cittadini comunitari rumeni e bulgari non iscritti al SSN “ai quali sono state erogate le prestazioni sanitarie indifferibili ed urgenti e che hanno comportato un onere complessivo a carico del Servizio Sanitario Provinciale per euro 53.783,00 nel 2008 ed euro 81.344,06 nel 2009”. 81.000 euro!
In chiusura la delibera, ricorda di “richiedere al Ministero della Salute di farsi carico dell’azione di recupero degli oneri relativi all’anno 2008 e 2009... nei confronti degli Stati competenti in sede comunitaria o diplomatica”.
Okay,la Patagli 81.000 euro ci tiene, e quindi fa bene a cercare di recuperarli. Fa male invece a rivalersi sui cittadini, e a voler far pagare a loro il servizio. Ma quel che più sconcerta è che si sia scelto di far pagare proprio e solo l’interruzione di gravidanza: le cifre degli oneri degli anni 2008-2009 (53.000 e 81.000 euro) si riferiscono generalmente a tutte le prestazioni mediche e non specificano nemmeno in quale misura questi oneri dipendano dall’interruzione di gravidanza.
Si vuole contrastare l’aborto?
Sorge il sospetto che questa scelta sia, in seconda istanza, frutto di una volontà, politica o ideologica, di fermare l’aumento delle interruzioni di gravidanza, passate dai 57 interventi nel 1995 ai 107 del 2009. E qui casca l’asino. È il tentativo di far rientrare dalla finestra della burocrazia quello che (l’ostracismo all’aborto) è stato cacciato dalla porta della legislazione e della volontà popolare. Prendendosela però solo con i deboli, le rumene indigenti.
Quanto questa volontà sia ottusa, ce lo dicono i numeri. Sempre nel 2009, gli aborti (ripetiamo, 107) hanno interessato per il 35,7% donne straniere, di cui il 58% provenienti dall’est Europa, in particolare Romania, Moldavia e Albania. All’interno di questo numero (22 donne), il numero delle straniere comunitarie si riduce di molto (ci si riferisce infatti solo alle romene) ed è ancora più basso il numero delle non iscritte al SSN. Il numero quindi effettivo è davvero esiguo, sotto i dieci casi: ma sono proprio le donne in condizioni di maggior indigenza a non venir tutelate, mentre avrebbero più bisogno di essere seguite e sostenute in un momento cruciale della loro vita. E tutto questo perché? Per risparmiare al massimo (dieci aborti al costo unitario di 1.300 euro) 13.000 euro! Ma ci si rende conto?
Anzi, neanche i 13.000 euro risparmiano! Perché diverse donne, poste di fronte a una scelta drammatica, decidono di sottoporsi comunque all’interruzione di gravidanza anche sapendo di non avere i soldi necessari, e difatti poi non riescono a pagare la prestazione. Così l’Asl si trova ad aver infierito su pazienti in gravi difficoltà, senza ricavarne alcunché.
Certo, si può rispondere che qualche euro in più lo si è comunque risparmiato da quelle donne di cui parlavamo in apertura: quelle che, non avendo il coraggio di sottoporsi a un intervento che sapevano non avrebbero potuto pagare, se ne sono andate via, ricorrendo probabilmente a pratiche clandestine. Ma, assessore Rossi, vogliamo gloriarci di tali esiti?
La toppa sul buco
Il problema è stato subito denunciato dalle associazioni Gr.I.S. (Gruppo Immigrazione e Salute) e ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), che più volte hanno segnalato l’anticostituzionalità della delibera cercando un incontro con la Provincia.“Non ci hanno dato ancora risposte convincenti - ci dicono i medici del Gr.I.S. - Anzi, sembra prevalere la volontà di ridimensionare i tavoli di confronto con le associazioni”. E questo fastidio verso i cittadini impegnati che pongono problemi è peraltro una linea che sembra emergere chiara nella gestione della Pat di questi ultimi anni.
Dal punto di vista legislativo la questione è stata presa in mano dal consigliere Mattia Civico, del PD, presidente della commissione sanità e politiche sociali, che ha contestato attraverso un ordine del giorno lo scostamento della sciagurata delibera dalle indicazioni del Ministero della Salute del 19 febbraio 2008, che prevede che le condizioni di assistenza ai neocomunitari siano conformi a quelle assicurate agli extracomunitari. Insomma, si è dovuto ricordare ai pasticcioni di piazza Dante, che - per fortuna - è un obbligo seguire le più sensate indicazioni romane. Altro bel risultato per l’Autonomia.
Sempre su input di Civico, recentemente si è fatto il primo passo per risolvere il problema: con una nuova delibera provinciale dell’11 marzo di quest’anno, si è data la possibilità agli indigenti comunitari di iscriversi al SSN a fronte del versamento di una quota annua che corrisponde al 7% del reddito famigliare complessivo - e che comunque non dev’essere inferiore ai 387,34 euro, “specificando però - precisa Civico - che l’accesso alle prestazioni urgenti indifferibili necessarie è gratuito, per non creare discriminazioni tra comunitari ed extracomunitari”.
Insomma, finalmente una toppa sul buco. Ma sempre una toppa. Secondo il Gr.I.S. anche i 387 euro rimangono comunque una spesa troppo alta per persone che non hanno un lavoro. E per di più, l’ordinanza non è retroattiva e chi aveva già sostenuto dei costi per interruzioni di gravidanza, continua a trovarseli sul groppone.
E soprattutto rimane lo sconcerto per questa maniera di approcciarsi al sociale e di legiferare della Provincia.
Gli aborti in Trentino
Pur in presenza di differenze a livello territoriale, nel corso degli ultimi 20 anni, in Italia si è assistito ad una riduzione del numero di interruzioni volontarie di gravidanza. In realtà, nel considerare questi dati, è sempre bene avere presente che si sta parlando di valori assoluti che non considerano la parallela contrazione in atto del numero delle nascite. Questo significa che il peso delle IVG in realtà è rimasto costante nel corso del tempo. Fatta questa premessa che possiamo ipotizzare avere interessato in modo uguale le diverse regioni italiane, è possibile osservare come il Trentino si caratterizzi da sempre per un numero inferiore di aborti rispetto al Nord-Est e l’Italia. Nel corso degli anni, il divario territoriale si è ridotto e nel 2007 si parla per tutte le zone di un valore che oscilla tra le 7,23 (per il Trentino) e le 8,6 (a livello nazionale) IVG ogni 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni. Il fenomeno presenta una maggiore incidenza tra le donne fra i 20 e i 29 anni, soprattutto se coniugate, e le straniere. In modo particolare, il grafico sottostante mostra lo scarto esistente tra il peso sul numero totale di IGV e sulla popolazione femminile in base alla cittadinanza. Impressiona il dato collegato alle donne rumene. Queste, infatti, pur rappresentando l’1,2% della popolazione femminile che al 2007 risiede in Trentino, incidono per il 6,5% sul numero totale di aborti. Elevato è anche il dato riconducibile alle donne di provenienza africana: aggregando il dato per continente, pur essendo poco più dell’1% in termini di popolazione femminile, influiscono sul risultato finale delle IVG per il 4,6%.
Cristiano Buizza
Preti in corsia
Ero in ospedale alcuni giorni fa, per una piccola operazione. Piccola ma comunque impegnativa: un po’ di preoccupazione, l’anestesia, il dolore con cui devi convivere. A fianco avevo un universitario diciannovenne, operato prima di me: una cosa più seria, il dolore, lancinante, lo tormentava; sedatosi, avevamo fatto amicizia, e parlato a lungo durante la notte.
Il mattino dopo entrava in stanza uno strano personaggio: non un medico né un famigliare, vestito in maniera trasandata, un vistoso crocifisso sul petto a indicarne la professione. Cominciò a parlarmi: che intervento, perché, quale decorso. Domande e risposte stanche: lo faceva per routine, di me nulla sapeva né gli interessava, gli rispondevo a stento, per pura cortesia. Si rianimava allora rivolgendosi al ragazzo con una dura predica sulle colpe dei giovani d’oggi, praticamente tutti delinquenti.
Allora intervenivo, contestandogli, da coetaneo, tale ridicola acrimonia generazionale. Io e il ragazzo, spalleggiandoci, lo facemmo battere in ritirata. “Dice che mi ci vorrebbe una guerra, ma come si permette? - rimasti soli sbottava il giovane - E lui, l’ha messa su in guerra la panza che si ritrova?” E sulla pancia del prete esplodevamo in una complice risata liberatoria.
Il nostro era particolarmente inadatto; eppure si aggirano nelle corsie questi personaggi, che, paracadutati in una stanza, stancamente cercano di inserirsi in cinque minuti in vicende umane di cui nulla sanno. Le “parole di conforto” non si può pensare di elargirle in questa maniera. Poveracci, ho sempre pensato, guarda che mestiere gli tocca fare, non ci credono neanche loro.
Ero troppo buono. In questi giorni L’Adige ha meritoriamente riportato come questo supposto “servizio” sia profumatamente pagato: il prete in questione si becca 68.000 euro (23.000 secondo la Curia, che contesta le cifre) e in totale la Asl paga ogni anno 763.000 euro (“solo 303.000” ribattela Curia). Ma, a parte l’esatta entità delle cifre, la cosa che senso ha? Se ci sono pazienti che apprezzano questo non gratuito interessamento del prete, perché non se lo pagano con opportune offerte? Perché mai io e tanti cittadini dobbiamo finanziare queste grottesche intromissioni nella nostra vita? E soprattutto: perché l’Asl getta dalla finestra in questa maniera centinaia di migliaia di euro e poi, per cercare di risparmiarne 13.000, infierisce sulle donne rumene che devono abortire?
Si parla di budget e di economicità? Si parla di carità cristiana? Ma qui, entrambi, dove stanno?
E. P.