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QT n. 2, febbraio 2011 Servizi

Requiem per un carcere

In nome dell’Autonomia è in procinto di essere distrutta una bella testimonianza del passato: il carcere di Trento

La storia delle carceri di via Pilati è una storia di simboli tra passato, presente e futuro. Il progetto dell’architetto Schaden, iniziato nel 1877, venne terminato nel 1881. Un carcere, una corte d’Assise, e un tribunale. Un modo per avvertire l’Italia, fresca di vittoria nella terza guerra d’indipendenza, che lì l’impero austro-ungarico era presente e non aveva intenzione di mollare la presa. Ma la simbologia si avvertiva anche ad un altro livello, prima che con l’intervento del 1967, nel quale si demolì la corte d’Assise, si rovinasse la completezza del disegno. Quei tre edifici in sequenza rappresentavano le tappe della giustizia. Dal tribunale erano direttamente visibili le carceri, cosicché l’imputato potesse scorgere dalle finestre ciò che lo attendeva in caso di colpevolezza.

Ma veniamo ad oggi. Il destino delle carceri sembra segnato, la demolizione imminente. I detenuti sono stati trasferiti in un complesso che assicura loro migliori condizioni di vita, e non ci sono buoni motivi per fare un passo indietro. Il presidente Dellai afferma che “oramai si è deciso”. Trascurando peraltro la vivace protesta da parte di organizzazioni quali Italia Nostra e Fondo Ambientale Italiano, che hanno raccolto circa 5400 firme contro la demolizione, a cui vanno aggiunte 900 segnalazioni delle carceri come “luogo del cuore” in una celebre campagna di sensibilizzazione; di molti architetti trentini, anche se formalmente l’Ordine non si è pronunciato; di autorevoli critici d’arte, tra i quali Mina Gregori, che parlò di “evento antistorico e imperdonabile”.

Sempre secondo Dellai, invece, la struttura architettonica all’interno della cosiddetta “area Madruzza” risulta già ampiamente compromessa. Ma questa è, come ci dice la presidentessa regionale del FAI, Giovanna degli Avancini, una grossolana inesattezza.

Il palazzo che ospita le carceri ha certamente bisogno di essere ristrutturato, ma è perfettamente intatto. L’intervento del 1967 colpì “solo” la corte d’Assise. Per quanto riguarda invece il trasferimento dei detenuti, è certamente stato doveroso, ma ciò non significa per forza demolire il luogo da cui essi si sono spostati. Le possibilità di utilizzo di un edificio simile sono moltissime.

Ma è una questione di simboli, anche per Dellai. Demolizione significa anche rivendicazione dell’autonomia del Trentino, significa che le carceri non sono un monumento nazionale, ma sono proprietà esclusiva della Provincia. E in un’autonomia declinata come scellerata libertà di azione, nemmeno gli stessi trentini hanno voce in capitolo. “Oramai si è deciso”. È una storia di simboli, nel bene e nel male.

Le carceri sono però patrimonio statale, appartengono all’Italia tutta. Il ministro della cultura Bondi avrebbe potuto (e dovuto) pronunciarsi su questa vicenda, ma una mozione di sfiducia lo attanagliava e non lo faceva dormire la notte. Per fortuna, gli amici si riconoscono nei momenti di difficoltà. E così ecco arrivare, in cambio di un dolce silenzio, qualche voto a sfavore della mozione al ministro, e il gioco è fatto. Poltrona salvata, carceri no.

In questa vicenda c’è di tutto. Arte, politica, intrighi, accordi. Manca solo un pizzico di etica.

Le tracce del passaggio di Schaden non si trovano solo a Trento: edifici da lui progettati, o da altri architetti nello stesso stile, sono disseminati in tutta quella parte d’Europa che nella seconda metà del XIX secolo era controllata dall’amministrazione dell’impero austro-ungarico. Da Fiume (oggi Reijka) a Lubiana, da Graz alla Polonia. Le sue opere sono il filo conduttore che lega tra loro città diversissime, sono testimonianze di una storia comune. Sono simboli necessari alla costruzione di un’identità Europea, senza la quale è e sarà impossibile proseguire il cammino verso una federazione di stati unita e coesa, in grado di affrontare difficoltà come quelle di questo periodo. La costruzione di un’identità collettiva richiede sforzi enormi, non bastano inni e bandiere.

Ora, più di un tempo, gli sfrenati regionalismi non possono che nuocere.