PD, il partito che non c’è
“Con queste elezioni è chiara una cosa: senza il Pd non si vince”. Questa dichiarazione di Roberto Pinter, autorevole dirigente del Pd, è emblematica: il primo partito della provincia non pensa a governare: il suo orizzonte è limitato all’esserci, all’avere un posto a tavola. Maggioritario nei numeri ma subalterno nella cultura, punta tutto sulla... vicepresidenza. Com’è possibile un’anomalia del genere? Il più forte non solo non detta legge, non è arrogante, ma anzi si tira indietro, spaventato dalle possibili responsabilità?
Vediamole meglio queste elezioni delle Comunità. I dirigenti del Pd festeggiano perché il partito nelle valli esiste quasi dappertutto, talvolta primeggia. Una vittoria della strategia di Pinter, vero segretario di un partito a tre teste (lui, il sen. Giorgio Tonini e il segretario ufficiale Michele Nicoletti). Fin dall’inizio Pinter è stato chiaro: occorre a tutti i costi tener unita la coalizione provinciale anche cedendo a qualsiasi richiesta degli autonomisti; bisogna che il Pd sia dalla parte vincente anche diventando la stampella dell’Upt. Non importa avere il presidente della Comunità, basta qualche assessore (di idee e programmi non si parla neppure, e non è una novità).
Questa strategia è stata attuata nel modo più compiuto da Gigi Olivieri in Giudicarie: presidentessa dellaiana, Patrizia Ballardini, il partito che aumenta i voti assoluti e diventa prima forza politica ma in posizione di sottogoverno, successo personale dello sponsor Olivieri. Ma è l’unico caso. Altrove il partito arretra. Comunque si festeggia perché risulta confermata l’impostazione di Pinter. Democristiana? No, socialdemocratica nel senso del Psdi italiano, piccola stampella della DC che governava. Rimanere al governo, essere indispensabili, avere una presenza nelle valli.
In realtà non c’è niente da festeggiare. Il Pd perde 1/3 dei voti, passando da 39.000 a 26.000. Certamente ha pesato l’astensione, che ha colpito soprattutto un partito d’opinione come il Pd. Ma l’allegria con cui si accoglie questo ridimensionamento è indicativo della linea del partito. Conta esserci, non guidare con proprie proposte.
L’altra testa del partito è rappresentata dal segretario Nicoletti. Il professore adotta lo stile delle tre scimmiette che non vedono, non parlano e non sentono; e soprattutto non decidono. Delegare, ecco il motto di Nicoletti che sconta la mancanza di tempo disponibile e l’inadeguatezza caratteriale al ruolo. Egli prepara discorsi coinvolgenti, di ampio respiro, con raffinate citazioni, con un linguaggio sconosciuto alle burocratiche relazioni di altri dirigenti. Ma tutto si ferma lì. All’esterno è invisibile, all’interno è un inconcludente mediatore. In questi mesi il partito di concreto non ha detto nulla su nulla, se non lanciare grida di allarme, promettere occasioni di dibattito partecipato che poi o non si tengono (vedi il caso, scandaloso, degli “stati generali della scuola” sulla riforma Dalmaso) o si risolvono in sterili convegni e in carbonari incontri formativi. Si punzecchia Dellai e la Giunta per poi rinculare e archiviare la pratica dopo pochi giorni. Gli assessori in Giunta (soprattutto Dalmaso e Pacher) seguono per filo e per segno i dettati del Presidente, anche quando sono in contrasto con la cultura del partito e senz’altro sono in rotta di collisione con le aspettative degli elettori democratici. Il partito incassa. Non elabora proposte, non emette comunicati, non fa conoscere la propria posizione (forse perché non c’è). Ma esiste un ufficio stampa del Pd?
I più generosi dicono che Nicoletti lavora sul lungo periodo, rigetta l’esposizione mediatica ma agisce per il rinnovamento. Che in parte è avvenuto, ma più per caso: l’autonomia lasciata ai circoli territoriali, aspetto positivo, è finita per produrre energie nuove, magari perché non si trovavano altri nomi per le candidature. Il rapporto del segretario con consiglieri e assessori provinciali è incomprensibile: Nicoletti dice di voler rispettare il loro ruolo, ma a che serve un partito incapace di richiamare all’ordine, di fornire almeno qualche generica indicazione operativa?
I consiglieri provinciali del Pd fanno invece politica. Ciascuno coltivando il proprio orto in assenza di una linea. L’opinione pubblica coglie solo le iniziative dei singoli: Civico per il sociale, Cogo e Ferrari per le donne, Dorigatti per il lavoro. L’esito è una politica fragile e farraginosa, con Dalmaso che perde i voti degli insegnanti e Pacher quelli della Valsugana.
Il clima soporifero sta esasperando gli animi dei più. Ecco così la terza testa, quella di Tonini e degli ex-diessini, che non sopportano il potere di Pinter e un segretario ritenuto subalterno. Ma questa fibrillazione prende spunto solo dall’esclusione di qualche storico diessino in valle, non dal nullismo della politica complessiva. Questo gruppo capitanato da Pacher, emblema della politica della “vicepresidenza” e della subalternità, non intende cambiare linea, anzi. Vuole solo controllare il partito in vista delle scadenze elettorali, a breve quelle nazionali, fra tre anni quelle provinciali.
E i circoli frequentati da giovani? Sono l’unica speranza.