Ecuba
Carnefici e vittime
Ecuba regina, Ecuba schiava: dove sta il dramma? È quello della regina decaduta - poverina! - o piuttosto è quello di tutti coloro che si accorgono del Male solo quando li tocca da vicino? La storia di Ecuba, raccontata da Euripide e messa in scena da Carlo Cerciello, assomiglia a quella di tutte le nobildonne decadute, che solitamente muovono a pietà. Nel momento più tragico, una morte prematura, cruenta, una serie di lutti in famiglia, apparirebbe come una stonatura, una perfidia, alludere ai trascorsi della vittima, quasi a voler giustificare le sofferenze da lei subite. Questo può apparire plausibile nella realtà, ma nel teatro? Dobbiamo piangere per Ecuba, quando possiamo immaginare il suo atteggiamento, la sua alterigia, nell’epoca della sua maggior fortuna? Le importava qualcosa dei figli morti degli altri, quando era regina? La morte, di chiunque, mette a tacere ogni ragionamento. È la morte del Logos, di ogni discorso, ancorché ornato e persuasivo, quella che va in scena con Ecuba.
La rigorosa struttura argomentativa, narrativa e drammaturgica delle antiche tragedie greche, e di Ecuba in particolare, costituisce la ragione per cui ancora oggi sono lette ed apprezzate. Cerciello, regista di solido mestiere, visualizza il logico rigore dei punti di vista dei personaggi tramite un’accorta regia dei movimenti e delle posizioni in scena, in modo da consentire ad attori e attrici la massima valorizzazione dei loro efficaci interventi. Il divario tra gli abiti di scena dei “macellai” achei (con tanto di grembiule insanguinato), moderni, e i costumi tradizionali indossati da Isa Danieli/Ecuba e le altre donne, rende in qualche modo diacronico, o persino atemporale, il rapporto tra carnefici e vittime, rappresentato peraltro con feroce ironia dalla raffigurazione, nel fondale, di un bovino stilizzato, suddiviso in parti da macello recanti i nomi di tragici personaggi dell’Iliade: Laocoonte, Priamo, Pentesilea, Achille, Ettore... La storia della ex-regina, vindice dei figli assassinati - Polidoro per avidità, da Polimestore; Polissena da Odisseo, per un sacrificio umano richiesto dal fantasma di Achille - semplice in sé, si arricchisce di minuto in minuto, con gesti, toni e parole, attraverso i quali sprizzano l’orrore e la disperazione, ultimi sentimenti consentiti a chi nulla riesce più a concludere con l’uso della ragione e la pratica della persuasione.
La recitazione della Danieli, pur discontinua, risulta ben compensata dagli altri attori, con una menzione particolare per le donne del coro, nitide e incisive. Un limite dello spettacolo potrebbe essere riscontrato nella napoletanizzazione involontaria (?) di linguaggio e gesti, retaggio della formazione culturale e teatrale della Danieli e di altri attori: ma si tratta di un aspetto certamente accettato e forse persino ostentato dalla regia. Inutili, sebbene piacevoli, le durevoli nudità di Polidoro e Polissena, tenuto conto che in inverno il Sociale è pieno di spifferi. Essenziale ma efficace la scenografia, con il cenotafio a fungere da altare di morte e pulpito per l’annuncio e la celebrazione delle reciproche vendette.