Procreazione assistita: i nodi vengono al pettine
La legge confermata dal referendum è ora al vaglio della Corte Costituzionale. Con l'interrogativo chiave: è più importante la madre o l'embrione?
La legge n° 40/2004 sulla procreazione assistita, all’art. 14 punto 5 prevede che i genitori siano informati sullo stato di salute degli embrioni da trasferire in utero. All’art. 13 punto 2 prescrive poi che ogni indagine sullo stato di salute degli embrioni in vitro debba essere esclusivamente di tipo osservazionale, secondo le indicazioni delle "Linee guida", vietando qualsiasi prelevamento di cellule per diagnosi più approfondite.
Ciò è contraddittorio, perché con la sola osservazione al microscopio i medici non potranno fornire informazioni attendibili ai genitori, che ne hanno diritto. Inoltre non è ragionevole vietare diagnosi pre-impianto di embrioni in vitro e consentire invece quelle prenatali sul feto (ecografia, amniocentesi, villocentesi) per l’interruzione di gravidanza anche dopo il terzo mese qualora siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6 della legge sulla interruzione della gravidanza n° 194/78). Non è irragionevole e contraddittorio vietare prima ciò che invece è lecito fare dopo?
Queste contraddizioni non sono sviste di un legislatore malaccorto, ma sono segnali di una precisa volontà politica: dare più importanza alla salute dell’embrione (anche in vitro) che alla salute della donna.
Eppure la Corte Costituzionale ha avuto occasione di affermare in numerose sentenze che "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è gia persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare" (sentenza n° 27/1975 ).
In decisioni successive la Corte ha ribadito "il carattere fondamentale del diritto della donna alla salute e la sua prevalenza, in caso di conflitto, sulla tutela accordata al concepito".
Infine è crudele, irragionevole, stupefacente e contraddittorio proibire alle donne che vogliono un figlio ed evitare futuri aborti, ciò che invece è consentito alle donne che vogliono abortire.
Tutti questi nodi sono venuti al pettine al Tribunale di Cagliari, che con ordinanza 16 luglio 2005 n° 5026 ha rimesso le questioni sollevate avanti la Corte Costituzionale.
Il caso è il seguente: una donna, dopo un primo tentativo di fecondazione artificiale non andato a buon fine (aborto per talassemia del nascituro) si ammalava di una grave sindrome depressiva. Effettuava quindi un secondo tentativo, ma d’accordo col marito (erano entrambi portatori sani di talassemia) chiedeva di effettuare una diagnosi sull’embrione prima che questo fosse impiantato, al fine di evitare una nuova malattia e un futuro aborto nel caso che il nascituro fosse talassemico. Il medico però rifiutava la diagnosi pre-impianto dell’embrione. I
Il giudice Donatella Satta ha dato ragione alla coppia dichiarando che l’articolo 13 della legge n° 40/2004 appariva incostituzionale per violazione degli articoli 3 e 32 della Costituzione.
La madre infatti ha diritto di sapere se l’embrione che le verrà impiantato è sano o no, per tutelare la sua salute fisica e psichica e , aggiungo io, per evitare un eventuale aborto.
La Corte ora deciderà e mi auguro che lo farà tenendo conto che la salute della madre è più importante di quella di un embrione in vitro.