“Ancora pittura”: Cappelletti e Finzi
A Villa Lagarina una mostra in parallelo su due autori, il veneziano Ennio Finzi e il trentino Mauro Cappelletti, attenti indagatori di cromatismi, luminosità, percezioni visive.
Idue quadri, uno per ciascun autore, posti come introduzione alla mostra di cui ci occupiamo ("Ancora Pittura- Mauro Cappelletti ed Ennio Finzi", Palazzo Libera, Villa Lagarina, fino all’8 maggio) dicono in termini piuttosto netti quali sono le ragioni che hanno suggerito questa mostra-confronto. Nel loro impianto ortogonale, nel protagonismo del campo mono-cromatico e soprattutto nelle linee di vibrazione luminosa che tagliano la superficie, avvertiamo subito stringenti affinità.
L’uno e l’altro sono stati - le due opere in questione sono degli inizi e della fine degli anni ‘70 - indagatori molto attenti dei fenomeni della percezione visiva. Ma lo sono, nonostante un’ evoluzione che appare in qualche caso vistosa, anche oggi, come constatiamo nel resto delle opere esposte, tutte realizzate nell’ultimo anno.
La mostra non è dunque concepita come due antologiche parallele, si accontenta di questo singolo, puntuale richiamo al passato, che tuttavia basta da solo a suggerire delle radici.
Ennio Finzi (Venezia, 1931), autore ormai molto prestigioso e affermato sul piano nazionale, è di una generazione diversa da Mauro Cappelletti (Trento,1948). Se non un padre, può essere considerato un suo fratello maggiore; come furono, non solo per ragioni anagrafiche, Aldo Schmid e Luigi Senesi prima e durante la vicenda di "Astrazione Oggettiva". Questo gruppo recepiva e interpretava istanze molto vicine a quelle maturate da Finzi. Ad esempio il fatto di far propri principi della creatività che sembrano mutuati dalla scienza, cioè la verificabilità degli assunti, un rigore metodologico assoluto e, come si accennava, una centralità assegnata al fenomeno percettivo che era molto vicina alla teoria della Gestalt, secondo la quale l’occhio non ha funzione di ricevere passivamente le informazioni visive, ma al contrario la percezione (visiva) segue leggi proprie, innate agli organi di senso e capaci di agire ancora prima che lo stimolo arrivi al cervello (su questi temi furono importanti, a livello teorico, gli studi pubblicati da Rudolf Arnheim a partire dal 1954, ad esempio "Arte e percezione visiva").
Finzi portò questa ricerca a conseguenze estreme (come si vide nel ‘92 alla galleria L’Argentario di Ines Fedrizzi, che fu per decenni tramite importante di queste idee in Trentino), fino a proporre quadri a dominante nera, in cui ad essere messo alla prova non era più tanto il concetto di percezione, ma quello stesso di percepibilità. Fu solo uno dei passaggi, per un autore mai sazio dei risultati raggiunti e proteso a sondare in molteplici direzioni il tema del colore-luce, soprattutto con un’inclinazione ad esaltare le dissonanze che trova alimento anche in una precoce vicinanza allo spirito della musica dodecafonica.
Nel frattempo abbiamo osservato il viaggio che anche Mauro Cappelletti compiva nel corso degli anni ‘80 e ‘90, dal rigore assoluto di lavori che sembravano programmaticamente escludere il livello dell’emozione profonda e del suo "caos", verso successive, insistite operazioni di disequilibrio di un ordine iniziale. Agli ortogonali vettori fluorescenti si sostituivano segni fattisi curvilinei e inseriti in uno spazio non più pensato come superficie ma che allude a una terza dimensione. Anche nel suo caso comunque, ogni successivo ciclo di ricerca non rinuncia alla centralità del fenomeno luminoso, all’inesauribile gioco delle tensioni cromatiche, col crescente protagonismo del bianco-luce che rappresenta, fino ad oggi, un elemento fondante della sua immagine.
Ed ecco qui oggi il punto di approdo - o di passaggio, ancora una volta - delle rispettive indagini. Le opere di Finzi, di grande sontuosità cromatica, ci si offrono come una contaminazione di motivi e modi espressivi, come se l’autore volesse compiere una sorta di auto-riepilogazione, recuperando nello stesso quadro le progressioni cromatiche, le vibrazioni luminose, l’opacità e il riflesso, e perfino il gesto e la macchia. Intitolandole "Grammaticando" dichiara esplicitamente l’intenzione, anche se, come nota Dino Marangon, pare un’operazione antigrammaticale poichè "all’ampiezza del lessico (...) non fa riscontro alcuna metodica, unificante strutturazione sintattica e compositiva".
Cappelletti sembra andare nella direzione opposta. Agisce cioè su sottili variazioni di un unico tema formale, che è l’andamento obliquamente verticale di larghe, magre, quasi sfibrate pennellate in una dominante blu, appena interrotte da inciampi d’un colore più acuto, che paiono anche qui pensate per far vivere, come attraverso un velario, il bianco.
Colpisce, nell’uno e nell’altro artista, l’importanza che viene assegnata alla perfezione esecutiva. E forse, se un problema si pone, a chi ha un legame così stringente con il controllo razionale dei propri mezzi espressivi e con la progettazione stessa dell’opera, è proprio quello di "come" farsi attraversare dall’"imperfezione". L’uno e l’altro artista sembrano essersi posti e ancora oggi porsi, per vie distinte, questa domanda; ma, per quanto ci riguarda, negli esempi qui esposti, il senso di una supervisione razionale degli accadimenti dell’opera - anche quando questa si sforza di essere "aperta" - è prevalente.