“La febbre”
Pur qualche didascalismo di troppo, questo di Alessandro D'Alatri è un film fresco, interessante, sincero, sul non banale tema del rapporto tra lavoro e realizzazione personale. Con l'ottima interpretazione del giovane Fabio Volo.
Diciamo subito che era da tempo che non vedevamo una prova di recitazione di questo livello da parte di un giovane attore italiano, che si carica sulle spalle tutto il peso del film e riesce, senza apparenti sforzi da Actors Studio, a trovare per ogni scena l’espressione del viso e il tono della voce più adatti. Siccome il film è "La febbre" e l’attore è il televisivo Fabio Volo, questo apprezzamento va giustificato. Come dimostrazione, basterebbe far notare, nella chiusura del film, l’ultimo primo piano sul protagonista: con nessuna parola e solo uno strabuzzare degli occhi, Volo riesce a trasmettere in modo coinvolgente un sentimento conclusivo di sorpresa e di gioia, ovvero tutto il senso di un lieto fine. Fabio Volo è un dilettante, ma nel senso buono del temine: sembra infatti divertirsi a incarnare un carattere nel quale si riconosce in modo trasparente.
Il personaggio di Volo si chiama Mario Bettini, vive in provincia, a Cremona, ha trent’anni e tante creative idee per il suo futuro. All’inizio l’ambizione di Mario sembra essere quella classica di aprire un locale, un disco-bar, ma con l’avanzare del film si capisce che la sua creatività non è "a progetto", ma semplicemente un modo di vivere. Anche quando la madre, con cui vive, lo orienta verso un sano impiego di geometra comunale, Mario non cambia il suo modo di guardare al mondo, e porta in quella professione la sua voglia di fare e la sua facilità di relazione. La trama poi si complica, si creano invidie in ufficio, Mario incontra una donna e litiga con la madre, i progetti non vanno come devono andare e così via, per 108 minuti forse sovrabbondanti di racconto cinematografico.
Attraverso il personaggio interpretato da Fabio Volo, il film riesce a comunicare qualcosa di fresco su una tematica ben scelta e attuale, il rapporto tra il lavoro e la realizzazione personale. Il tema del lavoro, benché in modo leggero, è al centro del film: è davvero quell’attività che nobilita l’uomo e contiene il senso di una vita? "La febbre" sembra voler rispondere in maniere diverse a questa domanda complessa. Intanto, ci dice che per certi versi non è così, che la soddisfazioni principali oggi si vanno a cercare al di fuori della sfera della professione; poi, però, aggiunge che quest’ultima è una soluzione-scappatoia facile ma non sempre reale, come mostra, in modo didascalico, la figura di un collega di Mario che aspetta solo il pensionamento e le sue vigne sulle colline; infine, il film aggiunge quella che è la sua tesi di fondo: in tutti i lavori ci dovrebbe essere spazio per la realizzazione personale. Mario Bellini dice esplicitamente che a lui la vita di geometra comunale (anche quando gli danno l’ufficio al cimitero) sarebbe persino piaciuta, se solo gli avessero lasciato gestire il suo impiego con un minimo di fiducia e di carta bianca.
Su questa tesi, purtroppo, il regista Alessandro D’Alatri innesca un ragionamento conclusivo - senza dubbio la parte più debole del film - contro la burocrazia o contro le catene che l’Italia di oggi metterebbe in tutti i campi alla creatività. A esplicitare le riflessioni pan-italiche compare addirittura, come interlocutore ai dubbi di Mario Bellini, un Arnoldo Foà nelle vesti del presidente della Repubblica.
D’Alatri si propone dunque di fare di Mario Bellini un’icona dei nostri tempi e della sua generazione, un simbolo della malandata Italia di oggi. In un’intervista afferma, in modo un po’ retorico: "Il rispetto e la passione per il nostro Paese devono diventare l’augurio che riesca a farcela a ritornare a essere quello che è stato nel passato. Un posto dove la fantasia e l’ingegno hanno trionfato e hanno dato grandi risultati. Oggi chi ha talento deve mantenere un basso profilo perché altrimenti rischia di bruciarsi e questa è una mortificazione che non giova a nessuno."
A un regista non è certo proibito lavorare sulla figura retorica dell’antonomasia. Ma in teoria il ragionamento dovrebbe uscire da sé, risultare scorrevole, non costruito in modo così programmatico. Le scelte di regia che enfatizzano questa componente finiscono quindi per risultare inevitabilmente forzate: una per tutte, l’ultima inquadratura, un effetto speciale di zoom all’indietro dai protagonisti della storia a una vista satellitare sull’Italia centro-settentrionale, un pezzo di stivale storto, non allineato sull’asse Nord-Sud. Per quanto questo movimento sia tecnicamente bello, il suo significato di generalizzazione della vicenda non può che suonare banale.
Tra l’interpretazione centrata sul personaggio comunicata dalla recitazione vissuta e personale di Fabio Volo e quella sociologico-universale attribuibile alla regia di D’Alatri è la prima a rendere "La febbre" un film interessante, sincero e nemmeno troppo medio nel gusto.