L’America e i suoi critici
Sergio Fabbrini, L’America e i suoi critici. Il Mulino, 2005, pp.265, euro 14.
Dal 1776 sono poco più di due secoli. Ma l’America oggi è qui, imponente, diffusa, cresciuta a dismisura lungo una storia, breve. E’ divenuta una superpotenza, l’unica dopo il 1989. Esercita, sul mondo, attrazione e repulsione. E’ però attraversata da antinomie, istituzionali e sociali, perché è fatta di uomini e donne che rappresentano interessi e ideali diversi, in tensione fra loro. La diffidenza, la paura, l’odio, (e l’amore), che l’America suscita negli italiani, e negli europei, hanno bisogno di un freno. E’ questo il compito che il saggio si assume: sottoporre a critica, razionale, l’anti-americanismo.
A Sergio Fabbrini, non un apologeta, la "simpatia" per gli Stati Uniti viene da una conoscenza lunga, ravvicinata. Per il Nuovo Mondo egli partì da Trento, la prima volta, più di vent’anni fa, da un’università orgogliosa di partecipare anch’essa a quella sua avventura di studio.
Ricordo che, in Consiglio d’Amministrazione, quando si diffuse la voce che il giovane professore dell’America si era innamorato, e che quindi non sarebbe più tornato in Italia, reagimmo preoccupati, e risentiti. Affidammo alle autorità (erano Bruno Kessler, Fabio Ferrari, Pierangelo Schiera, se ben ricordo) il disappunto, e la speranza. Tornò il professore di Scienza politica, e continuò l’indagine negli anni successivi, "andando avanti e indietro tra le due sponde dell’Atlantico". E oggi può scrivere un libro informato, puntiglioso, da discutere con attenzione.
Le critiche più diffuse alla democrazia americana sono di essere plebiscitaria, senza popolo, favorevole ai ricchi, (in politica interna), e imperiale, (in politica estera). Esse vengono da sinistra, da destra, anche dalla tradizione cattolica. Con intelligenza, e astuzia, Sergio Fabbrini accosta citazioni da Marco Tarchi ("Contro l’americanismo", Laterza, 2004) e da Antonio Gambino ("Perché oggi non possiamo non dirci antiamericani", Editori Riuniti, 2003).
Un solo esempio. Scrive Tarchi: "Molti hanno sotto gli occhi le ingiustizie che caratterizzano la società americana - l’egoismo, il materialismo, l’incosciente e distruttivo consumismo che ne innervano lo stile di vita medio". E Gambino conferma: l’America è "l’espressione e il centro di diffusione di quel modello di sviluppo economico-sociale che si identifica nel ‘fondamentalismo del mercato’".Da destra e da sinistra l’America è quindi rappresentata come "il regno dell’individualismo", "una giungla dove sopravvivono solamente i più forti", "una cultura di massa come forma di primitivismo consumista", "una specie di fabbrica totalitaria dove non esistono diritti e legami sociali".
Sergio Fabbrini non nega le disuguaglianze denunciate dai fronti opposti, anzi le supporta di dati: il quinto più ricco della popolazione americana guadagna 11 volte più del quinto più povero (in Giappone 4,7 volte di più; in Belgio 4,6; in Germania 5,8; in Canada e in Francia 7,1; nel Regno Unito 9,6). Negli ultimi vent’anni l’1% più ricco ha visto crescere la propria percentuale di ricchezza dal 9,3% al 15,8%.
Poi però l’autore spiega l’origine storica e il contesto politico in cui la diseguaglianza è inserita, che così muta di segno. L’America nasce con il mercato, lì la società precede lo stato: gli individui perseguono da sempre i loro interessi diversi e la loro particolare nozione di felicità, senza che un governo imponga al popolo la sua nozione di felicità collettiva.
Quando, a pag.141, leggiamo che in America "la libertà economica ha dovuto essere protetta dal potere pubblico per svilupparsi", per un momento ci fermiamo, noi europei, incerti, nella lettura. Si intende dire che lo stato sopraggiunge come un’alternativa egualitaria, massificata, pericolosa, tesa a comprimere, da cui il mercato deve difendersi? Oppure che lo stato rispetta, favorisce del mercato il dinamismo, perché capace di integrare individui e gruppi, anche i più deboli?
Chi è che minaccia, e chi è il minacciato? Quel "da", insomma, introduce un complemento di separazione (che esclude) o di agente (che include)? In America, spiega Sergio Fabbrini, l’intervento politico non penalizza, si limita a regolare il mercato (la prima legge anti-trust è del 1890), senza alterarne la struttura privatistica. Nella consapevolezza che i mercati sono delle costruzioni politiche, non dei fenomeni naturali.
Il Welfare, che la politica dei democratici costruisce, tra gli anni Trenta e i Settanta del Novecento (in risposta alla crisi del 1929 e alla seconda guerra mondiale), si preoccupa del "cittadino liberale", ovvero dell’eguaglianza dei punti di partenza, piuttosto che del "cittadino sociale", ovvero dell’eguaglianza delle posizioni d’arrivo. Non è una giungla l’America: il mercato produce diseguaglianze, ma sempre diverse, perché sa integrare generazioni di immigrati provenienti da ogni parte del mondo, e l’associazionismo civile promuove e organizza servizi.
La politica neo-conservatrice, avviata da Reagan e proseguita da George W.Bush, è certo una "rivoluzione": sull’onda di una protesta populista (anti-politica) contro le tasse, e attraverso una lettura fondamentalista della Bibbia, sta smantellando le politiche assistenzialiste. Ma i risultati delle elezioni del 2004, preoccupanti, non sono un ri-allineamento definitivo. La maggioranza di chi ritiene di poter "fare da soli" (Fabbrini, "Italianieuropei", n.5/2004) è risicata, incontra resistenze diffuse, che potrebbero presto invertire la rotta.
Anche le altre critiche alla democrazia d’America vengono contestate in profondità. Non è "plebiscitaria", perché "composita", strutturata su una molteplice separazione dei poteri (tra lo stato federale e gli stati federati, e tra Presidenza e Congresso). Non è "senza popolo", perché ha acquisito i tratti di una democrazia "post-elettorale". Non è "imperiale", perché, nei confronti degli alleati e degli altri paesi, è stata non un dominio, ma una"egemonia" (concetto gramsciano) politica e militare, basata sul consenso e sulla reciprocità.
Dell’argomentare, accurato, a sostegno delle tesi, in questa sede non è possibile dare conto. Naturalmente Sergio Fabbrini, mentre riconosce le virtù, non nasconde i vizi, simmetrici.
Solo un esempio sulla democrazia composita. Se la separazione ostacola l’abuso del potere, ostacola anche la responsabilizzazione di chi lo esercita. Se la tirannia della maggioranza è evitata fornendo le minoranze di diritto di veto, non è così evitata la tirannia della minoranza. Se la separazione dei poteri favorisce la competizione tra istituzioni, offusca quella tra i partiti. L’America finisce così per essere (per l’Unione Europea, per la stessa Italia), non un "modello", ma un "metodo" (di risoluzione delle antinomie) con cui confrontarsi.
Riconosce, inoltre, l’autore, che la svolta neo-conservatrice di George W. Bush, il "farcela da soli", è una rottura preoccupante nella storia politica americana. Soprattutto la pretesa di pacificare il mondo attraverso la guerra preventiva contro gli "stati canaglia". Tuttavia - è la conclusione del saggio citato sulle recenti elezioni - "l’America è una grande democrazia e non solo una grande potenza. E una democrazia non può agire a lungo senza il sostegno delle altre democrazie. (…) L’America,‘da sola’, ha la forza per vincere la guerra, ma non ha la legittimità per imporre la pace".
Sotto le diverse modalità adottate per affrontare le antinomie, quelle istituzionali (tra governo e partiti, tra gli stati e lo stato federale), e quelle sociali (tra mercato e stato, tra individui e gruppi), sta un unico modo di essere, quasi l’anima antropologica americana: la libertà degli individui in competizione. Essa ha origine con l’atto di fondazione storica della nazione: fu il necessario riconoscimento della libertà religiosa garantita alle sette a fondare il pluralismo degli interessi economici, sociali, culturali. La libertà fu il presupposto dell’eguaglianza (non viceversa, come in Europa).
Da allora la competizione fra attori economici, sociali, istituzionali diventa il principio guida della cultura politica americana. La competizione è certo un valore: in economia si chiama mercato, in politica democrazia. Produce ricchezza, dinamismo, efficienza. Ha una sua ricaduta anche etica: a scuola, in America, non si copia, né si suggerisce, "si fa da soli". Lo ha ricordato, in un recente dibattito all’università, Michele Salvati: la domanda era perché, invece, in Italia, è così difficile formare una classe dirigente?
E tuttavia ci sono ambiti in cui la competizione si rivela impotente. Sergio Fabbrini attribuisce giustamente agli Stati Uniti il merito di aver promosso, all’interno dell’Onu, istituti internazionali come il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, il Wto. Ma essi hanno applicato sul mondo, prevalentemente, la strategia competitiva che aveva funzionato negli Usa. Anche perché l’Europa è stata finora incapace di agire da contrappeso, da "potenza civile".
Ed è difficile immaginare un paese africano, come la Sierra Leone, uscire dal sottosviluppo, gettato a competere, "da solo", con l’Australia e il Canada. Ci sono problemi, nel mondo globalizzato, lo squilibrio sociale e il rischio ambientale, in cui gli uomini devono praticare, più impegnativa, la strategia cooperativa del "fare insieme".
Competizione significa certo rivaleggiare, ma la parola deriva (come competition, credo) dal latino com-petere, che significava innanzi tutto incontrarsi, domandare, dirigersi insieme.