“Napoli Hotel Excelsior”
Due atti unici di Raffaele Viviani rappresentano la magra sopravvivenza del popolo dei "bassi" partenopei: valido l'allestimento e ottima l'interpretazione di Tato Russo e la sua compagnia.
A Napoli tutto può accadere: il meglio e il peggio del Bel Paese, vero o falso non importa. La città vive nell’immagine di sé, di cantori e detrattori in cui - verrebbe da dire "da sempre" - suscita amore o odio con rare sfumature. Se tutti conoscono a menadito De Filippo, Totò e Scarpetta (su quest’ultimo nutriamo qualche dubbio), quanti ricordano altrettanto bene Raffaele Viviani? "L’aristocratico passeggiatore notturno", "il cannocchiale" su mondi tragici e quotidiani, come lo definisce Tato Russo, ha sviscerato la poesia della miseria, quella Napoli solo sfiorata da chi la barda e soffoca nelle leggende. Il popolo dei "bassi" sopravvive, salvando quel che resta della dignità: con lo scugnizzo, tanti, troppi poveri diavoli. Uno s’improvvisa pescatore e s’accontenta di una triglia ogni tre mesi, mentre gli altri lo deridono con spirito bonario. Si vive di espedienti, o di frode, ed è questo che cementa i rapporti sociali in nome della disgrazia. Ai nobili, invece, sembra vada tutto per il meglio: la sola seccatura è una spasimante così innamorata da inseguire l’amato in ogni dove. Per il resto, paiono creature di un altro pianeta: distanti, favolose, compaiono come fossero epifanie, divinità che danno o tolgono, benevole o crudeli. E sole.
La scenografia insiste sul contrasto. Il dentro, sempre celato, è luogo esclusivo dei ricchi; il fuori, in piena vista, un bestiario di guardie, cocchieri, chauffeurs. Nel primo atto, le linee sghembe seguono il profilo del Napoli Hotel Excelsior, nel secondo di una piazza. "Via Partenope", più varia e affastellata, dipinge personaggi – non tutti memorabili – fra cui spiccano quelli interpretati da Tato Russo: l’Ubriaco, il Magnetizzatore, il Cantante, Papele, il Cocainomane. La bravura ed esperienza dell’attore-regista non sminuiscono la performance del cast. Rino di Martino, Graziella Marina, Giulio Liguori, Umberto Noto hanno dato ottime prove, seguiti a ruota dal resto della valida compagnia.
Il momento più toccante è, però, ne "La musica dei ciechi". Il sestetto di vecchietti non vedenti ispira tenerezza per la sua fragilità, il suo affidarsi a un impresario che, forse, cerca solo di sfruttarli. "L’essenziale è invisibile agli occhi, non si vede bene che col cuore" diceva Saint-Exupéry; qui, invece, seguiamo i passi incerti di un marito cieco, incapace d’intuire i segreti della moglie. Roso dalla gelosia, plasma con gli altri sensi un mondo dove lei lo tradisce, dove altri occhi guardano, spiano per lui. La mancanza di fiducia è la porta per la solitudine: varcarla può significare anche la morte. Ma l’amore è dietro l’angolo, con la forza dell’insicurezza, del sostenersi a vicenda per non cadere, per "tirare a campà" un altro giorno.