Piera Legnaghi: “A cuore aperto”
Al Castello di Pergine: opere di grande impatto, forza e leggerezza negli esterni; di potente semplicità negli spazi interni.
Il segno d’accoglienza ci sorprende ancor prima di varcare la porta del castello: sono fascine di bacchette gialle che sporgono dai fori dei merli un tempo usati per puntare le armi; passato guerresco che viene rovesciato in un festone pacifico, come una celebrazione della raccolta del grano.
Ci è subito chiaro che l’artista, Piera Legnaghi, chiamata a esporre le sue opere al castello di Pergine (fino all’8 novembre) ha deciso che non si tratta di uno spazio da occupare, ma da interpretare. Spazio vasto e articolato, che comprende i prati, gli slarghi, i poggi circondati dalle mura (posti che in ogni punto offrono una formidabile ampiezza di visione sulla valle) e diversi ambienti interni. Luogo, quindi, abbordabile solo da artisti disposti a lavorare sulle grandi dimensioni (tra gli undici che l’hanno preceduta negli anni, troviamo i nomi di Plessi, Celiberti, Castagna, Habicher), ma che offre anche una singolare opportunità a questa artista, come lei stessa riconosce, di tradurre in realtà opere rimaste a lungo solo allo stadio di progetto, per l’assenza di luoghi e committenti adatti; e di riproporre alcune opere storicizzate.
Si è in primo luogo colpiti dalla combinazione di forza e di leggerezza. L’opera che dà il titolo all’intero percorso è un "cuore aperto" – ma potrebbe essere una coppia di petali o le ali di un insetto - costituito da due semplici piastre incurvate di ferro verniciato di rosso: diciotto incredibili quintali che sfiorano il prato in due soli punti; materia rubata al suo peso. Nello stesso metallo incontriamo "sculture" di dimensioni tali da poter essere attraversate, come "Underground", evocazione astratta delle perforazioni della terra, dove si rafforza in noi l’impressione di un lavoro capace paradossalmente di smaterializzare l’opera proprio là dove usa una materia così pesante, sia che il metallo sia usato con la sua superficie cruda e ossidata, sia che venga verniciato in uno dei colori fondamentali; e di esaltare un’idea, un’emozione, facendola non solo risaltare per contrasto rispetto alle antiche mura ma assegnando all’ambiente la stessa importanza, quale parte integrante dell’opera e della sua fruizione. Una sorta di connubio tra arte minimal e land art, come osserva Franco Batacchi, curatore della mostra insieme ai gestori del castello Theo Schneider e Verena Neff. E ciò vale tanto per un torretta spaccata, al cui centro viene calato un totem di lastre riflettenti, quanto per l’albero o la fonte d’acqua che sorge nel punto più alto del percorso, contro la luce del paesaggio.
Nel lavoro dell’artista veronese, nata nel 1945, al di là del legame con le fonti minimal (quel modo di operare per forme pure e senza preoccupazioni mimetiche) si rivela a vari livelli una componente di rapporto con la natura, di legame con un ordine e un’armonia profonda, non solo quando le allusioni naturali sono esplicite, ma anche quando l’astrazione pare farsi più radicale: è una ricerca di forme primarie (la sfera e la spirale, sopra tutte) secondo una visione che appare intimamente apparentata con il pensiero di grandi filosofi greci, Platone ad esempio, come lei stessa rivela in un significativo testo sulla propria poetica.
Tutto si conferma nelle opere di minori dimensioni degli spazi interni, dai "riccioli" del ciclo denominato "Elan vital" alle "foglie" di potente semplicità collocate in un altro degli avvolti, fino alle creazioni più piccole, gioielli che riprendono senza sfarzo alcune delle forme che abbiamo incontrato.
Percepiamo un’arte pensata come gesto di relazione, sia nel suo farsi - qui ad esempio le opere sono nella maggior parte affidate per la realizzazione a maestranze dell’industria del ferro - sia nel sentimento dello spazio e dell’armonia di cui si è detto; un senso della socialità del fare creativo che si riflette del resto anche nelle attività di Arteterapia in cui l’autrice è da molti anni impegnata.