Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

Terra di confine: neoclassico nel West

Il film di Kevin Costner, che come se non fossero passati 40 anni, riprende tutti i canoni del grande western classico. Eppure ha incontrato un notevole successo. Perchè?

Il primo pensiero è: come si fa, nel 2004, a girare un western così convenzionale? "Terra di confine", il nuovo film di e con Kevin Costner, è davvero un western neoclassico, privo di ogni interesse per tutto ciò che si colloca al di fuori di un racconto iper-codificato nella sua costruzione narratologica e iconografica. Costner è indifferente alle suggestioni post-moderne, non ha paura di sembrare fuori dal tempo, è innocentemente fiducioso nella forza e nella tenuta del western, principe dei generi, "cinema americano per eccellenza".

I generi nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Il western è nato nel 1903 con "La grande rapina al treno", ha raggiunto la sua maturità forse tra il 1939 ("Ombre rosse") e il 1956 ("Sentieri selvaggi"), poi si è visto crollare attorno un bel po’ di certezze, che gli hanno confuso i buoni con i cattivi a partire dagli anni Sessanta. Dopo che Sam Peckinpah ha fatto vedere il sangue che zampilla durante le sparatorie, sino ad allora tutto sommato incruente, il western negli anni Ottanta è arrivato alla fine del binario morto già imboccato. Ma dei generi bisogna sempre aspettare a celebrare il funerale. Capita come per i capi di abbigliamento: cambiano le epoche, passano di moda certi vestiti, tornano di moda quelli di vent’anni prima. Oppure capita che qualche regista riesca a dire ancora qualcosa di nuovo usando i vecchi rassicuranti copioni. Oppure qualcuno, come Kevin Costner, è capace di tornare a usare il genere per ridire le solite cose, quelle che tutti sanno, con un linguaggio da tutti riconosciuto. Per far rivivere, come se nulla fosse cambiato, un certo tipo di cinema, di valori, di ambientazioni, di personaggi.

"Terra di confine" è un western e non quello che il grande critico dei Cahiers du Cinéma André Bazin definiva un "sur-western", cioè un western che si vergogna di se stesso e "cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico…, insomma con un qualche valore estrinseco al genere e che si suppone lo arricchisca". "Terra di confine" è un western che non si vergogna, veramente radicale nel suo mimare il grande cinema classico.

A Costner non interessa il sur-western. Gli interessa la tradizione e la sua funzionalità a una costruzione lineare della trama. Il paesaggio è collocato al centro della storia; ci sono i buoni e i cattivi, nettamente divisi; ci sono il saloon, l’emporio, la main street; c’è l’obbligatoria sottotraccia rosa, il "romance"; c’è l’amicizia virile, la saggezza dei vecchi, i dialoghi attorno al fuoco, c’è persino il duello finale. In pratica, c’è tutto l’armamentario di convenzioni su cui il genere western ha costruito la sua fortuna.

L’operazione di "Terra di confine" ha convinto in pieno la critica e il pubblico. Gran parte della critica italiana, in crisi di astinenza da stelle da sceriffo, ha ceduto volentieri al fascino di una canonicità riproposta come se dai tempi di "Un dollaro d’onore" poco o nulla fosse cambiato. Ma a nostro giudizio, se va riconosciuto al film il grosso merito di riuscire a dialogare con i classici, allo stesso tempo la prevedibilità e l’incapacità di aggiungere qualcosa al già noto sono difetti che non pesano poco.

Più complicato è chiedersi i motivi del successo di pubblico. Gli americani alla chiamata di Costner hanno risposto in massa e anche in Italia il film ha avuto un suo discreto riscontro. A Costner era già andata bene una volta, con "Balla coi lupi", sontuoso western filo-indiano molto apprezzato al botteghino e agli Oscar. Difficile però attribuire il successo di "Terra di confine" al ricordo di "Balla coi lupi" o alla presenza di Kevin Costner, divo che ha saputo produrre anche uno dei più grossi flop della storia del cinema ("Waterworld"). Piuttosto, viene da sottolineare un altro aspetto, legato alla costruzione classica, lineare, distesa, del cinema di Kevin Costner.

Siamo sempre più abituati - a forza di televisione e di cinema post-moderno - alla frammentazione degli sguardi, alla moltiplicazione degli angoli di visione, alla frenesia dei cambi di inquadratura. Vedendo tutto da tutte le posizioni, crediamo di ottenere chissà quale guadagno in termini di conoscenza: le decine di telecamere piazzate dentro la casa del Grande Fratello, per dirne una, ci danno l’illusione di poter vedere (e sapere) tutto. E invece, se non si sceglie cosa far vedere, si finisce per riprodurre il visibile senza guadagnare nulla in termini di comprensione: uno sguardo è anche selezione, è l’assunzione di un punto di vista, la scelta di un posto in cui collocare la macchina da presa.

E’ questa una delle tante lezioni del cinema classico. Ce la ripropongono, per imitazione, i tempi dilatati, gli ampi spazi, i campi lunghi, le inquadrature pensate, non improvvisate, di "Terra di confine". Se fosse questo sapere neoclassico a far piacere il film di Costner, siamo d’accordo: di profondità, di respiro, di ponderazione, non ha bisogno solo l’epoca di John Ford.

Parole chiave:

Commenti (0)

Nessun commento.

Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.