Ristorazione, lo stato dell’Arte
Piccolo viaggio alla ricerca di come si mangia e quanto si spende nei ristoranti di Trento
A mangiar fuori si va per diletto, per abitudine, o per entrambe le ragioni. Certo c’è chi ci va per lavoro, per incontrarsi con altri commensali, ma questa è un’altra storia e oggi non ci interessa. Ci interessa invece parlare della salute della ristorazione nella città di Trento; e se limpida in noi è la consapevolezza di quanto poco il tema si presti ad una trattazione sintetica, l’anagrafe ci battezza sufficientemente vecchi - e la superbia sufficientemente saggi - da pensare di poter ragionare "del tutto" anche senza tener conto di ogni sua parte. Si badi bene, è cosa questa che avviene non per pigrizia o superficialità dello scriba, quanto piuttosto per la consapevolezza dell’inaccessibilità di una trattazione didascalica e compilativa allorché s’intenda riflettere di storia, di persone, di abitudini, di vite. Perché di tutto questo la cucina si sostanzia e di tutto questo, dunque, ci occorre ora di parlare.
Attori e abitudini
Per analizzare lo stato dell’arte della ristorazione bisogna ragionare innanzi tutto sugli attori, perché è chiaro: c’è chi mangia e chi fa da mangiare. Partiamo da una semplice domanda: "Chi ha la responsabilità del livello della ristorazione in una determinata località?" La risposta è apparentemente scontata: "I ristoratori, responsabili dello standard presente sulle proprie tavole". Invece i vizi e le virtù della cucina sono solitamente da spartirsi in egual misura. Come ci racconta uno storico ristoratore di Trento "nel livello e nella tipologia dei ristoranti di un dato luogo, parlando di meriti e di responsabilità, questi sono sempre divisi precisamente, 50% ai gestori, 50% agli avventori." Sembra provocatorio - esco a pranzo, mangio male, ed è anche colpa mia!? - ma è chiaro che il ragionamento fila via liscio. I ristoranti offrono in base alla domanda che c’è, e quindi in base alle richieste della gente. Come in un mercato come un altro, dove tutto o quasi si dipana lungo le direttive della domanda e dell’offerta. Sembra di riascoltare Adam Smith parlare della qualità della carne in macelleria, quando affermava dovesse questa dipendere: "non dal buon cuore del macellaio, ma dal suo portafoglio".
Qualità: c’è, non c’è. da chi dipende
Ma c’è modo e modo di seguire il mercato. Possiamo farlo rimanendo lavoratori seri, oppure cercando in esso alibi per la nostra cattiva condotta. "Da quando mii sono spostato in città chiudo la domenica a pranzo, perché non viene nessuno; - ci racconta un patron con molta esperienza - in città non c’è l’abitudine di portare la famiglia fuori a pranzo nel giorno di festa. Se fossi invece ancora fuori terrei aperto, perché la cultura del ‘giretto domenicale’ c’è, ed uscire da Trento giustificherebbe per molti anche il pranzare fuori."
Come biasimarlo? Chiarito però che la disponibilità del mercato dipende anche da quello che chi si affaccia al mercato richiede, quest’affermazione sulla scampagnata fuori porta ci permette di iniziare a valutare le abitudini di chi a Trento mangia e fa da mangiare. Il fatto è che in città, nell’idea stessa di frequentare un ristorante, esiste uno squilibrio tra l’atto di uscire e l’attenzione alla qualità del cibo.
Questo perché un’importante fetta di clientela esaurisce le sue voglie nel solo gesto di sedersi al tavolo, da lì in poi accade tutto per grazia ricevuta. In soldoni: per molti nostri concittadini il piacere di mangiare fuori ha più a che fare con la parola fuori che con la parola mangiare. L’intento vagamente mondano, quindi, è a Trento spesso privilegiato rispetto all’attenzione al cibo. Basta mangiare (e spesso basta mangiare tanto) per essere contenti e valutare bene una cucina.
Ma è a questo punto che l’alibi di cui prima s’è detto non dovrebbe essere speso. Perché un ristorante, se non proprio una funzione pedagogica sul gusto e i cibi, dovrebbe quantomeno avere rispetto per le ricette, le tradizioni e la cultura dell’universo gastronomico nel quale opera. Perché cucinare male polenta e spezzatino, o maltrattare i canederli?
Non sono piatti costosi e neppure difficili da preparare. E allora per quale ragione "tirare via" sulla preparazione, utilizzare un taglio di carne troppo grasso, oppure stopposo, o peggio adoprare l’irricevibile polenta in busta? Non certo per calcolo economico visto che con questi mezzucci un ristorante non aumenta di molto i suo margini e neppure risparmia molto tempo. E’ allora spesso una questione di sciatteria, di scarso interesse. "Perché tanto a molti clienti non importa nulla" - risponderebbe un cinico gestore. "Ma anche perché del tuo lavoro non importa nulla nemmeno a te", replicherebbe irritato lo scriba. Vere entrambe le risposte, comunque. 50 e 50, come si diceva prima.
Ma rispondere è un conto e avere ragione è un’altra faccenda. E siccome in questo caso la scusa non vale da giustificazione, ci sembra meglio che tutti, in cucina e al tavolo, si diano una regolata ed inizino a fare più attenzione. Anche perché, a sparigliare le carte tra le nostre piccole mura, oltre agli oriundi distratti arrivano anche turisti, villeggianti, appassionati. Persone e famiglie che hanno abitudini diverse e diverse ambizioni. La sensazione è che a queste categorie di avventori non si possa ancora a lungo rispondere di andare a mangiare nel mantovano, o in Alto Adige, perché, "ci scusi, ma da noi la cultura è diversa". Non si può rispondere così anche se la realtà è questa, e anche se laggiù (o lassù) la domenica il papà porta tutta la famiglia al ristorante, dove non può capitare di mangiare peggio che a casa. Perché se a Guastalla il brasato è ovunque inappuntabile e a Brunico i canederli al formaggio sono preparati con tutti i crismi, a Trento si deve poter mangiare polenta e coniglio bene ovunque la si proponga, come se ai fornelli ci fosse una nonna.
Prezzi e livelli
Come detto, per molti versi sembra proprio che la maglia nera in città tocchi alla cucina di tradizione e, di conseguenza, ad alcuni locali storici che della tradizione si fanno baluardo.
Forst e Pedavena sono veri e propri monumenti della tipicità. Immutabile il primo e con alle spalle una recente robusta svecchiata il secondo, entrambi si propongono d’intercettare tanto la clientela residente, quanto quella turistica. I menù hanno una notevole - e, ci sia concesso, sospetta - ampiezza: antipasti, primi, secondi, piatti unici, pizze… Spesso la varietà della proposta, abbinata ai numerosi coperti disponibili, finisce per avere effetti negativi sulla cura e la qualità delle preparazioni. Così, non di rado, ricercando sapori robusti senza i giusti strumenti, gli ingredienti vengono troppo conditi, risultando unti e pesanti. Un vero peccato, perché proprio questi locali storici che dovrebbero custodire, tramandare e restituire la tradizione, si limitano invece ad una sorta d’imbellettato servizio mensa. Fatto sta che anche se dal tavolo ci si alza provati, il solo fatto di poter contenere la spesa in 25 euro è ancora, per molti, argomento decisivo.
Si sale di prezzo, e anche di qualità, al Volt e al Tino. Notevolmente più piccoli dei primi due, l’offerta ruota attorno alla disponibilità stagionale delle materie prime. Polenta e spezzatino sono fatti abbastanza bene, ma anche qui è bene non avere impegni pomeridiani se ci si va a pranzo, e dotarsi di Alka Seltzer se vi accade invece di varcarne le soglie al tramonto. Meglio di loro fa l’Orso Grigio dove, con una trentina abbondante di euro, ti puoi procurare alcuni piatti tradizionali ben preparati e leggeri, in un ambiente dall’acustica ottimale, anche a locale stracolmo. Sempre ragionando di tradizione, le cose migliorano quando si esce dal centro storico. E’ chiaro, manca la rendita di posizione (e per di più non ci sono i buoni pasto a garantire l’incasso) e servono quindi ragioni diverse affinché il cliente ti venga a cercare. Il Libertino a Piedicastello e il rifugio ai Bindesi, ad esempio, pur non inventando niente, curano le portate in modo adeguato. Il baccalà per il primo, e il galletto per il secondo, sono piatti che valgono la mini trasferta. Per entrambi servono almeno 35 euro.
Torniamo ora in centro. Deboli per quanto riguarda la tradizione, le belle vie della zona pedonale nascondono interessanti proposte per chi si muove alla ricerca di tavole curate e blandamente creative - il che, ahimé, significa anche mettere in conto una quarantina di euro. Al Cappello, al Vecchio Pozzo, allo Scrigno del Duomo (di sopra), al Chiesa (nell’apposita sala), si possono avere delle belle sorprese. Gli ambienti sono curati e caldi, quasi sempre a cavallo tra il rustico restaurato e il minimalismo moderno. Le carte hanno proposte limitate e sono quasi sempre garanzia di decoro. La clientela è ricercata, tendente allo snob: coppie benestanti, giovani (sui 35) della Trento bene e qualche politico incravattato. Poche le famiglie e i giovanissimi. In questi lidi raramente sbagliano un piatto, semmai alle volte non vanno oltre il buonino, ma la caduta non è all’ordine del giorno. Il nostro consiglio, comunque, è quello di sedersi a queste tavole solo se si è intenzionati a star lontani dai piatti della tradizione.
Sono fatti bene anche questi, si badi bene, e se rivisitati il lifting è fatto a modo, sono però spesso scarsi in quantità. E se per poca dimestichezza ci può accadere di ritenere accettabile che le code di gambero con le zucchine siano tre o quattro, quando la polenta è una pallina da ping pong e le costolette d’agnello sono due, col pensiero si ritorna a rimpiangere la nonna.
Un passo avanti ancora e siamo nel gotha della ristorazione; trentina naturalmente, perché fosse da comparare i nostri top con i capibastone dell’Alto Adige, questi ci metterebbero a letto con un buffetto sulla testa. Alle Due Spade, allo Scrigno del Duomo (di sotto) e al Chiesa (in sala gourmet), sanno cucinare bene. Può capitare che non emozionino - e a questi livelli, anche di spesa, è già abbastanza fastidioso - però la cura per i dettagli c’è. La tradizione, specialmente allo Scrigno, è trattata con i guanti bianchi. Imbellettata, certo, liberata dai grassi in eccesso e ammodernata nella costruzione del piatto, però rispettata per quella che è la sua natura e la sua storia. Parlando della clientela, il dato curioso non è tanto quello qualitativo, quanto quello numerico: sono locali molto poco frequentati. Certo, i coperti sono già di suo tirati all’osso, ma ad esclusione del weekend dove se non prenoti non entri, durante la settimana non di rado vi capiterà di essere i soli commensali. La spesa elevata tuttavia - se fai il brillante con la carta dei vini balzi sugli 80 euro senza difficoltà - non basta a giustificare la sopravvivenza di queste cucine. E infatti da sole non sopravvivono, vengono tenute in vita. Il Chiesa, che per non dipendere dalla sola sala gourmet ha differenziato l’offerta proponendo anche un wine bar e un ristorante meno impegnativo, vive soprattutto per le spalle quadrate del suo sfruttatissimo servizio catering, tra i più richiesti in provincia per matrimoni, cresime, ricevimenti e conferenze. Lo Scrigno del Duomo, anche lui diviso tra sopra, sotto e bancone, è di proprietà della Cavit, cooperativa vitivinicola che da sola rappresenta il 65% della produzione trentina. Diverso il discorso per le Due Spade che, aperto nel 1545 (no, non è un errore di stampa) vive, oltre che per la qualità dell’offerta, per la presenza di una clientela affezionata, per l’attenta gestione famigliare e grazie alla proprietà delle mura (per quella tipologia di locale gli affitti in zona superano tranquillamente i 5.000 euro al mese). Emblematica in questo senso è la vicenda del ristorante Fior di Roccia, aperto diversi anni fa dal talentuoso chef trentino Walter Miori e dalla consorte Franca. Per molti anni abbarbicato in quel di Lon di Vezzano, il locale, stellato Michelin e pari categoria dei nostri top cittadini, ha chiuso le serrande per riaprire bottega battendo bandiera Locanda Margon. Locale, questo, al riparo economico della famiglia Lunelli, proprietaria del marchio Ferrari e della locanda in questione. Certo, meno oneri e meno onori, ma anche un poco meno di poesia.
Conclusione: pregi, difetti, speranze
Come si mangia dunque a Trento, e quanto si spende? Ci pare di poter dire che in città la situazione è squilibrata ma non drammatica. Si mangia abbastanza bene nei ristoranti di fascia media e alta, mentre si arranca vistosamente negli epigoni delle vecchie trattorie. "E’ chiaro - obbietterà lo stolto - mangi bene dove spendi tanto e tantissimo, meno bene dove spendi poco!" Scempiaggine, questa, di chi evidentemente non fa la spesa e non s’industria con mestoli e tegami. Un girello di maiale per arrosti costa circa 10 euro al chilo: mangiano in quattro buoni a 2 euro e 50 a testa. Si rincari pure del 200% e con 7 euro e mezzo potresti offrire un arrosto di maiale all’olio d’oliva di decorosissima qualità. Il punto, torno a dirlo, è culturale. Ai trentini, sarà per le origini austere, per le abitudini contadine, per la leggera chiusura culturale che fu, mangiare al ristorante interessa poco. Non sono allenati e, quindi, quando accade di varcare le soglie di un locale, l’attenzione è troppo tesa all’"esperienza nuova" e troppo poco al contenuto del piatto. Discorso, questo, che sarebbe fin troppo facile far scivolare sul versante economico. Bacchettando chi non ha ancora capito che viene turlupinato di più dalla sedicente osteria tipica che ti riempie con 20 euro, piuttosto che dall’oste che per giusti 40 ti tratta da galantuomo.
Chiudo facendo la morale e sperando serva. Che le nonne cucinino bene sembra quasi un dato genetico, ontologico forse. Ma come andranno le cose domani? Quando le mie figlie e i miei figli saranno canuti vecchietti con i nipotini in grembo, come cucineranno? Lo dico senza timore d’apparire retrogrado o maschilista: con ometti che ancora entrano nel pallone se gli si chiede di salare l’acqua, e ragazze che per rivendicare sacrosante liberà vivono ancora il rifiuto della cucina "perché io dietro ai fornelli non ci sto", andrà a finire che tutti perderemo tanto.