“I negri” siamo noi
Lo spettacolo di Genet, messo in scena dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli: la sua durezza, la sua provocatorietà, le reazioni di parte del pubblico. E il giorno dopo ci si sono gettati sopra i politici...
Jean Genet e il pubblico trentino: una reazione chimica complessa che ci aspettavamo. Lettere indignate e complimenti, chi ha applaudito e s’è commosso, e chi invece ha aggiunto qualche nome sul suo libro nero. Il teatro è anche questo: può intrattenere ma anche offendere. Visto che le polemiche hanno spesso trasceso i fatti, preferiamo soffermarci sul senso di questi "Negri". A chi se n’è andato dopo venti minuti (alla quarta bestemmia) diciamo solo che è un suo diritto, purché la questione finisca in platea o prosegua al di fuori in modo costruttivo. La prima ipotesi è caduta, la seconda vorremmo realizzarla qui.
"I negri" nascono in Francia, un Paese che nel ’58 è impegnato nella guerra d’Algeria per salvare i suoi possedimenti coloniali dopo aver perso Marocco e Tunisia. Sono tempi in cui la voce d’un nero non può levarsi contro un bianco: un essere inferiore deve stare al suo posto. Per scardinare quest’aberrante ingranaggio, Genet compone un inno non solo contro il razzismo, ma contro lo sfruttamento in generale. Lo j’accuse non risparmia niente e nessuno. A recitare ogni parte nel ’59, davanti a un pubblico di soli bianchi francesi, sono proprio dei negri. Scandaloso, inammissibile per molti; geniale e nobile per altri. Sono passati quasi 50 anni: negro e inferiore non sono più sinonimi, si spera. La provocazione razziale, così intensa nel testo originale, perde dunque forza. Notiamo di più il resto: linguaggio scurrile, allusioni sessuali, amplessi, nudi…
Chi ha contato il numero delle bestemmie, si sarà anche accorto che a pronunciarle non è mai un negro, ma un bianco? Il governatore per la precisione. Altrimenti sarà difficile comprendere il perché di quattro imprecazioni. Anzitutto va ricordato che gli attori fingono a loro volta di essere una compagnia di attori. C’è chi fa i bianchi, in alto, e chi i negri, in basso, con tanto di nomi improbabili. Ciò che vediamo è una recita nella recita, cioè metateatro. Dobbiamo dunque immaginare di avere davanti solo negri, che dei bianchi scimmiottano i lati peggiori, quelli che subiscono ogni giorno in un rapporto schiavi-schiavisti. Nelle piantagioni di cotone, come nei capannoni della Renault, non si andava per il sottile: un inferiore è un inferiore, per insultarlo van bene anche parolacce e bestemmie. E’ ciò che i negri sono (o erano) abituati a sentire da noi. Non è un’ingiuria fine a se stessa, ma mirata a farci riflettere su quel Dio che offendiamo col nostro comportamento, mentre ci permettiamo (noi viziati e viziosi oltre che vigliacchi) di fare pure la predica a chi è diverso.
Certo, Latella non ci ha facilitato il compito. La scelta di far recitare quasi solo attori bianchi è stata fuorviante, benché il suo scopo la giustifichi. Genet non credeva al colore della pelle come fattore discriminante; per lui il razzismo aveva radici più profonde, insite nella paura e nell’odio, filtrate da politica, cultura, religione e ordine sociale. Perciò mette in scena i peggiori stereotipi (dal bianco effeminato al buon selvaggio) così da ribaltarli e far emergere, nella seconda parte, il lato autentico di ogni personaggio. Distrugge i nostri miti, le Fedre e le Signore delle camelie per cui impazzivano i francesi, o i filosofi, tipo Bossuet, da riciclare per qualche citazione filo-coloniale. Il nostro stesso linguaggio è avvertito come finto, uno strumento per costruire castelli e catene. E se la lingua si spoglia, il corpo fa altrettanto. Questa volta, però, Dioniso non c’entra; è semplice erotismo, vitalità di popoli condannati moralmente perché "da loro vivono nudi". Non sempre la carne ha lo scopo di sedurre, piuttosto dovrebbe turbare, riaffermare la presenza del corpo accanto a un’anima castigata e soffocante. E’ dal corpo, dalla materia che parte la rivoluzione, il nuovo corso del mondo in mano ai negri e non ai bianchi, come tempo dopo avrebbe predicato Malcolm X col suo Potere nero. Dapprima Arcibaldo si fa dipingere per intero, membro compreso, per essere come noi; poi rinuncia e diviene fiero di non esserlo. Ai nostri valori sbandierati, esportati, imposti, si sostituiscono quelli della sua gente, dell’Africa: il ventre accogliente della Terra, la danza, il sesso, il nero che dà gioia e che colora tutto. Il bianco perde il trono, con tutta la sua simbologia, per una questione di pelle.
Genet, che non credeva nel valore assoluto del colore, si fermava qui. Latella invece prosegue e aggiunge al finale, scorciato in qualche punto, la profezia di un Allah nero. Il regista, tra l’altro, ha spesso interpolato e attualizzato l’originale, abbassandone talvolta il registro lirico; un’operazione legittima, che riduce la distanza fra pubblico e autore. Peccato solo che si perda qualche slancio poetico, col suo retrogusto di parodia e sincera commozione. Chi ha visto "Chant d’amour", l’unico suo film, sa cosa s’intende per "Genet lirico".
Al Teatro Nuovo di Napoli leviamo tanto di cappello per il coraggio e la bravura. Ben poche compagnie vantano attori che sanno anche danzare, cantare e suonare discretamente il violino; o un regista in grado di orientarsi, senza perdersi, nelle scatole cinesi del pensiero di Genet, tanto da raccogliere consensi persino al Festival dei Teatri di Lione. Nelle sue mani, "I negri" si conferma uno spettacolo incisivo, per nulla gratuito, un rito che non si può compiere senza spettatori. Molti se ne sono andati, non hanno accettato la finzione né gli attacchi più duri alla nostra religione. Ma se l’autore voleva provocare, non era certo sua intenzione erigere quel muro che altri, in buona fede, hanno inalberato. Il sesso, come per Pasolini, può essere una metafora del potere e del possesso, della mercificazione. Forse dovremmo tornare ai dibattiti, anche a teatro, per scoprire la parte peggiore di noi, esorcizzarla invece che cercarla negli altri; e seduti comodi su una poltrona, diventeremo per poco i nuovi "negri".