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Palestina: è il momento delle parole forti

Walter Ferrari

Leggo sempre "avidamente" gli interventi sulla stampa, ed in particolare su Questotrentino, di Silvano Bert, perché in essi trovo sempre onestà intellettuale, competenza e interessanti elementi di riflessione, anche quando non condivido appieno le tesi sostenute. Confesso inoltre il piacere che provo in quel linguaggio pacato che sempre però sottende grande passione e travaglio intellettuale, e mi riporta indietro nel tempo quando sui banchi di scuola seguivo le sue lezioni. Anche se allora, come allievo, non gli ho mai dato grandi soddisfazioni, devo riconoscere il ruolo determinante avuto dalle sue lezioni sulla mia formazione, e di questo gli sono debitore.

Leggendo però il suo articolo sul n. 10 di Questotrentino titolato "Ebrei e palestinesi: parliamone con pudore", pur non mancando una feconda problematicità, trovo molte affermazioni superficialmente basate sui luoghi comuni della propaganda sionista: la modernità di Israele contrapposta alla arretratezza degli arabi, la democraticità dello stesso a fronte del dispotismo che caratterizza i Paesi arabi, il mito della trasformazione del deserto in rigogliosi frutteti ed altro ancora. Per questo vorrei ricordare alcune cose e sottolineare qualche questione importante.

1. Per quanto riguarda le solide radici democratiche dello Stato d’Israele, voglio ricordare che esso è stato fondato su basi etnico-religiose e sul palese e professato razzismo anti-arabo (i palestinesi divenuti cittadini israeliani, pur godendo del diritto di voto, sono discriminati per quanto riguarda tutto il resto); inoltre Israele si trova in continuo stato di guerra , con tutto ciò che ne consegue sul piano della restrizione delle libertà democratiche. Purtroppo questo esmepio di democrazia è assai poco rispettoso dei diritti umani (vedansi le ripetute denunce in tal senso del prof. Israel Shahak, dell’avvocatessa Felicia Langer e di Url Avnery membra della Knesset), ed al suo interno vige la censura militare.

2. Israele non ha mai rispettato le risoluzioni dell’ONU, non ha mai definito i propri confini e con la tattica del fatto compiuto (guerra, occupazione ed insediamento di coloni) impedisce da più di 50 anni la formazione dello Stato palestinese.

3. Israele è uno Stato dal carattere esplicitamente coloniale anche entro i confini ante-1967: la sua costituzione, voluta da alcune potenze europee prima e dagli Stati Uniti poi per ragioni geo-strategiche (controllo del petrolio in primis), ha comportato la distruzione di centinaia di villaggi e l’espulsione di oltre 700.000 palestinesi in due anni (1948-9). Così è stato creato il mito della "terra senza popolo per un popolo senza terra", nell’imbarazzato silenzio di ampi settori democratici europei paralizzati dal ricordo ancora vivo delle persecuzioni nazi-fasciste nei confronti degli ebrei.

4. La modernità di cui Bert parla non è che l’imposizione di architetture, modi di vita, consumi e cultura sul modello nordamericano in un luogo che per caratteristiche geografiche, storiche e culturali è estremamente lontano da quel modello. Tale imposizione ovviamente passa attraverso la distruzione del popolo palestinese, della sua identità e della sua memoria storica. Questo significa la distruzione dei villaggi palestinesi, delle moschee, dei cimiteri e la realizzazione al loro posto di moderni insediamenti, di parchi e altro ancora. Questo significa la sottrazione della terra ai palestinesi e la distruzione delle colture tradizionali come l’ulivo, sostituite da produzioni ortofrutticole destinate all’esportazione, caratterizzate dalla massima artificiosità delle condizioni di produzione. Un’agricoltura sempre più industrializzata, ad alato consumo d’acqua (in una regione che non dispone di grandi risorse idriche e per questo caratterizzata storicamente dallo sviluppo dell’aridocoltura) e di fertlizzanti chimici. Questo significa la sistematica manomissione del territorio attraverso insediamenti coloniali (cambiando i nomi dei luoghi) e superstrade che rompono la continuità territoriale, e con lo spazio geografico frammentano anche la memoria storica di questo popolo fino a negarne l’esistenza (si veda in proposito l’interessante saggio di Silvio Marconi pubblicato su Latinoamerica n. 76-77, 2001).

5. Per quanto riguarda la questione dell’acqua, faccio notare che, al di là di quanto affermato dalla guida di cui Bert parla, sistematicamente anche l’acqua viene sottratta ai palestinesi, ma anche ai siriani e ai giordani. Anzitutto 700.000 palestinesi residenti entro i confini d’Israele del 1948 ne sono stati privati perché cacciati. In secondo luogo sia le sorgenti della regione del Golan, sia il Giordano che il lago di Tiberiade vengono ampiamente sfruttati per le coltivazioni (tali acque vengono canalizzate fino alla regione del Negev) per le piscine, le abitazioni e le industrie, e così sottratte ai villaggi palestinesi.

6. Per quanto riguarda l’affermazione secondo la quale esiste continuità di obiettivi fra israeliani di destra e di sinistra, da Bert contestata, penso che la storia dal 1948 ad oggi ne abbia ampiamente dimostrato la veridicità. Entrambi hanno fondato e fondano la loro politica su due costanti fondamentali: la "sicurezza" ed il "diritto biblico". Qual è infatti la differenza fra il piano Allon propugnato dai laburisti nel 1967-73, sintetizzato nell’obiettivo di "circondare i centri arabi" ed il "dispositivo Sharon" del settembre 1977: "rompere ogni nozione di continuità geo-demografica araba con una griglia di insediamenti"?

Questo non significa che tutti gli ebrei d’Israele la pensino così, ma sta di fatto che solo un’esigua minoranza ha trovato finora il coraggio di manifestare apertamente la propria opposizione, come ad esempio i riservisti (quasi 500) che si sono coraggiosamente rifiutati di combattere. Il silenzio dei molti e la mobilitazione da parte della comunità ebraica internazionale vanno però purtroppo letti come sostegno ad una politica coloniale e genocida.

In conclusione voglio dire che dissento nettamente quando Bert afferma che occorre evitare " di usare parole troppo forti": è mia convinzione, infatti, che proprio di fronte ai tragici fatti di Palestina, che mentre scrivo si stanno ulteriormente aggravando, occorrano invece parole forti ed impegno coerente ed appassionato nel sostenere senza indugio la giusta causa del popolo palestinese.

Mai come in questo frangente storico caratterizzato dalla crociata americana contro il terrorismo, dove con questo termine i potenti designano ormai chiunque intenda opporsi al loro sistema di dominio, la lotta di questo popolo ha assunto un valore simbolico per tutti coloro che non si riconoscono nella "libertà duratura" di Bush, Berlusconi e soci, delle multinazionali, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

La prudenza e la moderazione, da parte di chi avrebbe potuto mobilitare le coscienze (come la Chiesa) sono servite a permettere le persecuzioni naziste nei confronti degli ebrei (ma non solo); più di 50 anni fa l’ignavia dei molti ha lasciato soffocare la rivolta degli ebrei del ghetto di Varsavia, così come poche settimane fa l’eccessivo "pudore" di chi giudicava le manifestazioni di piazza a sostegno della Resistenza palestinese "pacifismo a senso unico" ha consentito all’esercito israeliano di massacrare i palestinesi del campo di Jenin.

Di fronte a quanto successo negli scorsi mesi e a quanto sta accadendo oggi in Palestina (si legga in proposito la viva testimonianza di Piera Radaelli pubblicata ne La rivista del Manifesto n. 28, maggio 2002), non posso fare a meno di chiedere a Bert, senza retorica: se non ora, quando vanno usate parole forti e praticate azioni coerenti?