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QT n. 12, 16 giugno 2001 Monitor

Lingue recise

Grugniti, belati che diventano parole. Sul volto una maschera di legno, sulle spalle pesanti campanacci che curvano la schiena. È Calibano, lo schiavo selvaggio de "La tempesta" di Shakespeare. Vestito a festa, impara a danzare i passi e i saltelli del mamuthone sardo. Ma chi è questo strano personaggio così lontano, purtroppo, dalle nostre tradizioni?

Dovete sapere che un tempo, in Sardegna, i prigionieri venivano scherniti e poi sacrificati, ubriachi, sul finire dell’inverno; e Calibano seguirà la stessa sorte per aver tentato troppe volte di fuggire. In due ore, la sua storia si delinea tessera su tessera nella pièce scritta e interpretata da Nevio Gambula, "La lingua recisa", allegoria del potere che combina Shakespeare, il rito e i totalitarismi del Novecento. Se il teatro, il 29 maggio, è stato l’Ex-Michelin, la scena vera e propria era il corpo dell’attore, la sua voce, i suoi gesti. Poco altro riempiva il palco: sabbia scura disposta in un cerchio invalicabile, quell’isola che Calibano non potrà mai lasciare.

"Dieci giorni per imparare a morire", questo gli hanno concesso. Lo uccideranno quando sarà pronto, durante una cerimonia. L’uomo si toglie la maschera e narra il suo dramma di vittima e carnefice. Era il re dell’isola e lì accolse Prospero, esule e naufrago, che poi lo spodestò, lo rese schiavo instaurando una tirannide. Ma Calibano permea ancora ogni angolo della sua terra, è un tutt’uno con lei, come ne fosse la forza ispiratrice. Il "padrone" non ha spento la sua vitalità, l’ha solo incatenata come ha fatto con gli altri "operai", i minatori che a sera, stremati, non hanno voglia di cantare. "Lingue recise", ormai incapaci di parlare. Calibano è diverso e leva la sua voce, la modula dal roco al sussurrato, dal cavernoso allo stridulo, tra racconti, minacce e bestemmie. Solo una volta sentì i minatori intonare "L’Internazionale", ma la rivolta fu soffocata da Prospero nel sangue. Da allora è silenzio.

La sua stagione sta per finire: presto l’ultimo proletario potrà "ingoiare in un fiato tutto l’azzurro del cielo". Intanto prova i passi e si diverte a tranciare le funi con cui si calano i suoi carcerieri, per portargli il cibo in un antro angusto, dalle pareti taglienti. È il destino di tutti quel crepaccio senza fondo, persino il Comunismo "non è fallito, è stato sconfitto".

Un messaggio sociale, prima che politico. Forse non è più tempo di lotte e di rivoluzioni, ma Calibano pare dirci, insegnarci il contrario: "La danza è la mia resistenza, è la mia fine, ma è anche la mia resistenza".

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