Identità e valori
Sgombriamo il campo anzitutto dall’argomentazione squisitamente politica con cui si conclude nel numero scorso di Questotrentino l’editoriale di Renato Ballardini (Il sonno della ragione). E’ fuori discussione che l’identità urlata e perseguita da Haider e Bossi sia sinonimo di razzismo, per quanto anche il credo berlusconiano che eleva successo e denaro a modello di comportamento non si discosti granché dallo spirito animatore di quei disegni. Ma la questione che accosta i termini e i significati di identità e valore, sia nei riguardi dell’individuo che in quelli d’un gruppo sociale, di una comunità o d’una nazione, mi sembra formalmente malposta. Penso infatti che l’identità, quale consapevolezza delle caratteristiche proprie di un singolo o di una pluralità di individui non sia in se stessa né un valore né un disvalore. I valori o la loro essenza dipendono in primo luogo dalla qualità di quelle caratteristiche, dal segno positivo o negativo della loro sostanza, e poi dal modo in cui le diverse identità interagiscono fra loro.
Si pone qui allora il problema della libertà come principio del rispetto di sé e dell’altro, e quello della giustizia come fondamento di quel rispetto. Riconoscere al diverso gli stessi diritti e la stessa dignità su cui si fonda il titolo della propria cittadinanza e della propria cultura non costituisce affatto negazione o rinuncia alla propria identità. E’ il segno di quel titolo, da una parte e dall’altra, che può conferire all’identità il riconoscimento d’un valore o il giudizio d’un disvalore. In realtà, la supremazia e la sopraffazione, l’asservimento e il culto della forza e del potere e tutto ciò che di iniquo e disonesto informa la pratica dei rapporti fra il primo e gli altri mondi, ma che si riproduce anche al loro interno, connotano una identità negatrice di ogni altra, perché comportano il rifiuto, la condanna e la cancellazione del diverso. Che questo accada nelle forme e nei modi del genocidio e delle guerre o in quelli del dominio e del ricatto economico e politico fa poca differenza, almeno dal punto di vista dell’etica. Perciò anche l’omologazione dei processi produttivi sotto il segno del monopolio delle risorse e della loro distribuzione, anche il ridurre il molteplice aduna unità coatta in nome del cosiddetto interesse superiore, che è spesso quello del motore più potente, sono espressioni di una mala identità.
Certo che Renato Ballardini non ha inteso assolvere Stati e ceti dominanti, lobbies della finanza e del mercato o santuari della globalizzazione dalla colpa d’una forbice che relega ancora la maggioranza degli umani a condizioni di vita inaccettabili: ma il sonno della ragione dal quale giustamente egli mette in guardia i lettori non produce soltanto gli Haider e i Bossi, ma anche e prima ancora la paranoia del profitto in ogni cosa e ad ogni costo, una paranoia i cui cascami da bottega alimentano la sottocultura dei nuovi razzisti.