E vinse Dellai, anche troppo
Quanti saremo in questa sala?" Questa stessa domanda se la ponevano, in due punti diversi, guardandosi attorno e facendo gli stessi calcoli mentali, due personaggi diversissimi: l’assessore all’Urbanistica a Trento Alessandro Andreatta, e il noto boss della politica Tarcisio Grandi. Sostenitore - convinto - di Marta Dal Maso il primo; sostenitore - opportunista - di Luciano Azzolini il secondo. E sia Andreatta che Grandi erano accomunati da un medesino pensiero: "il nostro candidato ha fatto un grande intervento, di quelli che lasciano il segno, coloro che lo hanno sentito non potranno non tenerne conto. Certo, poi a votare nel pomeriggio verranno le truppe cammellate, quelle che parcheggiano l’auto, votano, e ripartono..."
Nei calcoli che accomunavano il giovane assessore un po’ idealista e il vecchio politico scafato c’era l’essenza del congresso del partito popolare. Un partito alla ricerca - come tanti altri del resto - di se stesso; tra le grandi e ingombranti eredità del passato, le spinte al rinnovamento, la tradizionale (e sempre vincente?) arte della gestione del potere.
Nella sala della cooperazione erano tre i candidati alla poltrona di segretario: Mauro Betta, uomo di fiducia di Dellai; Marta Dal Maso, outsider, espressione del mondo cattolico impegnato; Luciano Azzolini, già delfino di Kessler, già deputato, già emarginato da Dellai, che intendeva - in contrapposizione con Lorenzo il Magnifico - tornare alla politica attiva. Una partita difficile quella di Dal Maso e Azzolini: che si riproponevano di non far vincere Betta al primo turno (tenerlo cioè sotto il 50% dei voti e costringerlo al ballottaggio) e riaprire nel partito la discussione. Ma anche questo era un obiettivo arduo da raggiungere.
La sala era formata da tanti ex-Dc. Ma non solo. E la parola "democristiano" era quasi un tabù; costantemente sostituita dall’aggettivo "popolare": "i valori del popolarismo di tutti questi anni" "l’esperienza di noi popolari da Degasperi in poi...". Un po’ come nel congresso dei Ds e la parola "comunismo", sostituita da "Internazionale socialista".
E forse è anche la comunanza di questi non facili percorsi di superamento di eredità ingombranti, che rendeva inattuali gli antichi steccati.
Lo si è visto nella parallela accoglienza di due interventi di due alleati, il democratico Zorzi, e il diessino Bondi.
Giuseppe Zorzi, cattolico, anzi Dc doc, già coordinatore dell’Ulivo, poi cofondatore della Margherita, oggi uomo di Dellai e testè eletto alla guida dei Democratici al termine di un congresso senza discussione alcuna: faceva un interventino di maniera, dicendo praticamente nulla. Accoglienza freddissima.
Mauro Bondi, neo segretario dei Ds, metteva invece i piedi nel piatto: intervento chiaro fino alla brutalità ("ha ragione Amato: nel centro-sinistra ci sono 12 partiti, ma non 12 progetti; in parole povere ci sono 12 burocrazie") che richiedeva ulteriore chiarezza ("non esiste che alle prossime comunali da qualche parte ci si allei con formazioni esplicitamente di centro-destra, daremmo l’impressione che il centro-sinistra è un’alleanza di comodo, non un progetto") fino a suscitare qualche isolato mormorio quando andava nel dettaglio su punti di contrasto ("ormai dovremo averlo capito tutti che con questa legge elettorale non si governa; e che se non ce la facciamo a cambiarla noi, dobbiamo chiedere un aiuto a Roma"). Risultato? Applausi convinti e scroscianti: questo è il nostro alleato, con lui dobbiamo confrontarci.
Era quindi il turno dei tre candidati. Mauro Betta parlava per primo: freddo, preciso, professionale. La politica è una cosa seria, occorrono specifici strumenti tecnici, personale specializzato. Elencava con distacco "i valori del popolarismo che sono i nostri riferimenti"; una lista, un inventario delle "profonde e solide radici" ridotte a poche, singole parole: "solidarietà e cooperazione" "sussidiarietà" "piena cittadinanza europea"...
Si animava invece a parlare della politica "pura", ossia i rapporti con i partiti. "Il centro-sinistra non è un approdo tattico, ma una scelta strategica, senza ripensamenti". La parallela scelta del centro-destra di formare l’Arcobaleno è positiva, favorisce il bipolarismo, "non abbiamo alcuna simpatia per la zona grigia della politica come terra di nessuno: la zona degli ammiccamenti, dei lavori di corridoio, dei ribaltoni". Ottimo, lo prendiamo in parola.
Infine il problema Dellai, affrontato con apprezzabile chiarezza: "c’è chi parla di contrappesi, tra segreteria del partito e presidenza della Giunta Provinciale: non c’è nessun bisogno di contrappesi, il partito deve sostenere i rappresentanti impegnati nella difficile azione di governo". E subito il contrattacco "questo non significa essere appiattiti, significa rifiutare i veti incrociati, i personalismi" e poi l’attacco diventa personale, un pugno in faccia ad Azzolini "non abbiamo bisogno di chi, per una critica, per una proposta non accettata, si esclude dalla vita del partito." Prendi e porta a casa.
Con Marta Dal Maso è tutta un’altra musica. Altra cultura, altra sensibilità, altra maniera di vedere le stesse cose. Il suo discorso è incentrato sul "primato della morale nella politica", un rifiuto esplicito al "bisogna sporcarsi le mani". Anche lei parte dalle "radici del popolarismo" ma, a differenza di Betta, in maniera assolutamente non rituale: perchè Dal Maso denuncia il pericolo di sottovalutazione di radici e valori "in favore di nuovismi, che trascurano trasparenza e democrazia, con conseguente pilotaggio della politica da parte dei pochi". I nomi Margherita e Dellai non vengono pronunciati; ma non occorre.
Di qui (e anche dalla personale esperienza della Dal Maso, delusa dai limiti di democrazia della Margherita) la necessità del partito, come luogo strutturato di confronto e partecipazione.
Poi le accuse più dure. Al ceto di giovincelli rampanti ("alla politica alta, alla politica bella, servono uomini liberi, con una professione e un titolo di studio, che non si lasciano prendere nè per fame, nè per ambizione"); allo stesso Azzolini ("no alle cariatidi, che cercano nella politica una sorta di immortalità"); ancora alla Margherita, questa volta in versione Grisenti ("dobbiamo chiederci quanto e quale liberalismo, a volte nella Margherita c’è troppo stile aziendale"); ai professionisti di partito, che nella sala fingono che si parli d’altro ("serve un codice deontologico: il rispetto dei luoghi di decisione, la non cumulabilità delle cariche, la sospensione di chi è indagato"). In una sala in cui siede Pancheri, non solo indagato ma anche condannato, e alla presidenza staziona il sen. Andreolli - testè assolto dallo scandalo Caproni, ma con la motivazione (vedi pag. 6) che "le scelte amministrative di dissipazione di fondi pubblici" costituiscono un problema politico, non penale - il discorso è decisamente forte.
Infine, sui rapporti con la Giunta, il contrario della posizione di Betta: "non è opportuna l’identificazione tra chi agisce nel partito e chi governa. E’ importante che l’azione di governo sia sostenuta, affiancata e se occorre anche controllata dalla forza politica di riferimento." La presidenza la avvisa dello scadere dei trenta minuti concordati, e Dal Maso si lascia sfuggire un sonoro "càspita!": non riuscirà a parlare di alleanze, di centro-sinistra e centro-destra ("ma non importa, ho detto quello che più mi premeva") e di altro ancora. Dispiace a tutti: era bello sentirla parlare, con tanta passione e rigore. Gli applausi la sommergono.
Luciano Azzolini inizia imbarazzato. Betta lo ha attaccato di brutto; la Dal Maso, con cui è più in consonanza, senza tanti complimenti gli ha dato della cariatide; e forse soprattutto si rende conto che quello che a lui più preme, il recupero dell’eredità migliore della Dc, lascia fredda parte della sala, che il passato vuole lasciarselo indietro.
E allora ricorre al mestiere: gigioneggia, alterna battute, sapientemente passa dalla commozione (per il passato, per i militanti costretti alla vergogna) all’ironia (per l’azienda Lorenzo Dellai & C.).
Come la Dal Maso riprende il problema delle regole, ma partendo più dalla politica che dall’etica. I partiti sono istituti di fatto, che incidono in maniera decisiva sulle istituzioni: "per questo la loro vita deve essere regolamentata: l’averlo evitato ha portato a corruzioni e degenerazioni che in Italia, come in Germania e Giappone, incidono pesantemente sulla società e sulla tenuta della democrazia." E così la Margherita, grande intuizione, cresciuta senza regole: "non è sentita come una cosa comune, ma come strumento del Presidente della Giunta e di chi è alleato con lui. E attenzione, una struttura senza democrazia e trasparenza, fa una brutta fine..."
A Dellai non concede niente: ricorda l’ultimo congresso di Comano, finito con l’allontanamento dell’area di Valduga e soci, oggi alleati nel centro-destra; ironizza sulla soddisfazione di Dellai per aver in questi giorni perduto anche il Patt; gli ricorda "con il cuore in mano, che il Presidente non può, per il suo stesso bene, concentrare tutto su se stesso. Il partito deve sviluppare la sua azione, non contro la giunta provinciale, bensì a favore; ma la Giunta non deve pensare di avere il monopolio dell’elaborazione."
E così su punti programmatici: l’università, dobbiamo perseguire un continuo ampliamento di facoltà, o invece una qualificazione? Sull’ospedale: occorre proprio farne un altro? Su Bolzano: si parla di Regione, e poi si fanno due Università due aeroporti...; per quanto si può continuare?
Anche per Azzolini giunge il richiamo dalla presidenza al rispetto dei tempi, quando ancora si vede che avrebbe tanto da dire. E, come per la Dalmaso, la sala vorrebbe sentirlo parlare ancora, perchè è un confronto vero, di idee e di passioni.
L’applausometro lo incoronerebbe segretario.
Le schede elettorali, depositate dai tanti elettori incanalati nel pomeriggio dalla potente macchina organizzativa margheritina, incoronano invece Mauro Betta.