Dietro un’assoluzione
Impossibile non concordare con quanto affermato dall’ex magistrato Giovanni Kessler su L’Adige del 18 gennaio: "Colpisce l’assenza di un dibattito politico sulla Tangentopoli trentina. E precisamente sui modi per evitare che si ripetano i fenomeni accertati dalle indagini giudiziarie".
L’occasione è data da una intervista rilasciata a Concetto Vecchio dopo la sentenza con la quale il gup Carlo Ancona ha mandato quasi tutti assolti gli imputati al processo per tangenti e corruzioni varie al Museo dell’aereonautica Caproni di Mattarello: assolti nel merito gli ex assessori democristiani alla cultura Tarcisio Andreolli e Tarcisio Grandi, i funzionari provinciali Mauro Marcantoni e Rita Tasin, il costruttore Marcello Zorzi ed il direttore dei lavori Claudio Pedrotti, assolti ma per la prescrizione del reato il pubblicitario Guido Demozzi e l’ex presidente del museo Giorgio Casagranda (imputati di truffa aggravata finalizzata all’ottenimento di contributi pubblici, reato per il quale la prescrizione scatterebbe solo nel 2006, hanno visto derubricato dalla sentenza il loro reato nel meno grave truffa ai danni dell’ente pubblico, per il quale erano già scattati i termini di prescrizione). Unica condanna, quella del funzionario della Provincia Erio Volpi a 6 mesi per truffa.
"Caproni, mangiatoia senza reato" - ha intitolato L’Adige del 15 gennaio, andando ad illustrare nel dettaglio la sentenza con un articolo di Sergio Damiani. Giustamente, perché le motivazioni della sentenza sono tanto incredibilmente dure a livello - diciamo così - politico, quanto favorevoli agli imputati al livello giudiziario. A fronte della già vista raffica di assoluzioni, il giudice prende atto di aver rilevato una situazione incresciosa in termini di spreco di risorse e loro gestione non trasparente. Per l’accusa del pm Giuseppe De Benedetto, il Museo Caproni sarebbe stato "solo un pretesto che un ceto politico corrotto ed abituato da anni di impunità, con la sua corte di funzionari collusi, ebbe ad ideare allo scopo di realizzare ritorni di denaro sotto forma di tangenti, o almeno elevati guadagni per imprenditori e professionisti collegati al loro partito politico".
Il magistrato giudicante non confuta tale gravissima analisi, affermando che "gli argomenti spesi dall’accusa non sono peregrini: essi trovano conforto nel clima di illecito che presiedeva a molte scelte amministrative di quegli anni" e parla di "scelte amministrative di dissipazione di fondi pubblici", tanto che, nonostante la raffica di assoluzioni, l’inchiesta è stata in ogni caso utile per aver avuto l’effetto di "interrompere stanziamenti e spese per molti altri miliardi che altrimenti sarebbero stati inghiottiti dalla struttura del museo, tanto che, almeno sotto tale profilo estraneo al processo, occorre riconoscere che le indagini hanno conseguito, per il solo fatto di essere intervenute ad interrompere tale flusso di spesa, un rilevante successo dal punto di vista dell’interesse per la pubblica amministrazione". Solo che … "il giudice ordinario non può sindacare le scelte della pubblica amministrazione, anche in materia di dimensione della spesa pubblica, ove queste siano assunte lecitamente sotto il profilo della competenza e della procedura seguita".
Un ragionamento forse sconcertante per il lettore comune, non avvezzo a sottigliezze giuridiche, e che potrebbe forse far pensare anche ad una sentenza che coglie al volo un nuovo clima politico – quello in cui si è discusso in parlamento di funerali di stato per il tangentista Craxi - dando un colpo vero al cerchio (la raffica di assoluzioni) ed uno finto alla botte (la durissima motivazione della sentenza). Ma che certo non manca, in realtà, di una sua ferrea logica.
Si è spesso detto che con le inchieste tipo "Mani Pulite", la magistratura ha svolto di fatto una funzione di supplenza della classe politica, essendo stata chiamata ad intervenire per garantire trasparenza e correttezza "a posteriori", con azioni giudiziarie, per il semplice fatto che su quel terreno aveva fallito la politica e la buona amministrazione, nelle cui mani stavano gli strumenti per un intervento ordinario preventivo alla corruzione, fatto di regole efficaci, adeguati criteri amministrativi per valutazioni di merito e strumenti di controllo politico. E’ ovvio che le funzioni straordinarie di supplenza non possono diventare ordinarie, e che prima o poi i conti vengono rimandati al mittente - la politica - come fa appunto una sentenza come questa e le sue motivazioni. Ed ecco quindi la pertinenza delle osservazioni contenute nella intervista di Kessler. Perché indubbiamente, intervenga o meno una sanzione penale, si tratta proprio di evitare che si ripetano i fenomeni accertati dalle indagini giudiziarie, e su questo l’assenza di attenzione politica è stata totale. Tantopiù che sono ancora in circolazione – in servizio attivo permanente alla politica - i due ex assessori riconosciuti dalla sentenza non penalmente perseguibili, ma tanto clientelari dall’essere stato "un rilevante successo dal punto di vista dell’interesse della pubblica amministrazione" l’aver bloccato flussi di spesa che a loro facevano capo.
Kessler osserva che "in questi ultimi anni si è data troppa enfasi all’aspetto punitivo dell’attività giudiziaria, lasciando in ombra la funzione di accertamento dei fatti delle sentenze. Vanno rivalutate le categorie del giudizio politico ed etico". In realtà l’unico vero commento politico alla sentenza sul Caproni è stato quello - ovviamente di segno completamente opposto - venuto, tramite un’altra intervista a L’Adige (15 gennaio), da parte di Enrico Pancheri, ex potente democristiano, il principale inquisito della più importante inchiesta della tangentopoli trentina, quella sull’Autobrennero, che lo ha visto condannato a 2 anni come collettore di tangenti. Pancheri non fa tante sottili distinzioni fra "aspetto punitivo" e "funzione di accertamento dei fatti delle sentenze", è felice come una Pasqua per le assoluzioni del Caproni: "Ma non avevo dubbi - dice - sono proprio cambiati i tempi".
Pancheri non è certo un pentito. Ancora oggi, dopo la condanna, rivendica piena verginità politica con argomenti non privi di interesse in sede storica, perché ci fanno capire la origine lontana del fenomeno. "Ho la coscienza tranquilla - dice - ho sempre avuto molta fede in Giuseppe e Maria, mi sono stati sempre vicini e credo che fossero d’accordo con quello che facevo. L’ho fatto nell’interesse della gente, per salvare la democrazia in Italia. Il pericolo in quel momento era il comunismo".
Dalla sua ricostruzione sulle origini del fenomeno delle tangenti, esce un odore virtuoso di tonache e scenari parrocchiali di paese, come quello che si intravede nello sfondo della foto che il giornale pubblica ad illustrazione dell’intervista, con l’intervistato a stringere la mano a Fanfani nel 1956 a Malè. "Ma quale corruzione - tuona - io non ho mai obbligato nessuno a versare dei contributi. Erano tutte elargizioni spontanee per i partiti, per diverse associazioni e per alcuni candidati alle varie elezioni dal 1946 al 1992" Però, incalza l’intervistatore, ancora Concetto Vecchio, "per puro caso gli appalti li vincevano quelli che pagavano". Ma Pancheri non ci sta, non lo segue sulla via di una riflessione sulla trasformazione di una pratica virtuosa e pia in una delle basi dell’economia mafiosa, in una delle ragioni del dissesto finanziario dello Stato italiano - come ha ricordato, dati alla mano, Vincenzo Passerini in un suo intervento su L’Adige di domenica 30 gennaio - e, per restare a casa nostra, della crescita di un ceto politico-burocratico come quello comparso in tribunale per rispondere delle "dissipazioni" senza più ceri alla Madonna del Museo Caproni.
Anche questa è una storia di secolarizzazione.
Rimane un dubbio, che ad essere sinceri ci lascia un piccolo fondo di angoscia: com’è che l’aria sta cambiando (o è già cambiata, come dice il vecio Pancheri)?