Consolo e la sicilianità
Vincenzo Consolo, Di qua dal faro. Mondadori, 1999, pp.286 , £.29.000.
Perché mai un giornale che si chiama Questotrentino dovrebbe occuparsi di un libro, come l’ultimo di Vincenzo Consolo (come tutti quelli di Consolo, in realtà) che si occupa della Sicilia? Di scavare, di scavare con le unghie che si sporcano di fango sterco e sangue, sotto la crosta delle apparenze, per scandagliare nel profondo, nelle viscere, la realtà della Sicilia. Scandagliarne in verità la realtà storico-sociale - con il paradigma della mafia come cuore segreto/tumore invasivo e raggelante a fare da architrave universale, per quanto nascosto nell’ombra, della storia degli ultimi due secoli - ma usando, per questo, soprattutto le vicende della sua cultura, della sua letteratura in particolare, ricca dei capolavori di scrittori come Verga, Pirandello, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia. Perché dunque?
Per le stesse ragioni per cui un nostro redattore ha proposto in un recente incontro di cambiare il titolo di questo giornale da Questotrentino ad Oltre[il ]trentino. Per ragioni di confronto. Perché, visto che questa terra ha fatto delle sue specificità la sua bandiera istituzionale, dietro cui far marciare ogni tipo di richieste, è forse il caso di interrogarsi se le specificità non ci siano anche nel resto del mondo, ed andare a verificare in cosa possa mai consistere questo tema delle "specificità locali" tanto più in zone - com’è appunto la Sicilia - in cui queste hanno avuto analoghi sbocchi istituzionali di "autonomia speciale".
Per un simile confronto Consolo è uno scrittore prezioso, ed il suo ultimo libro, che raccoglie in un unico volume scritti di varia natura (recensioni, prefazioni, interventi a congressi, articoli giornalistici, ecc.) può venire come cacio sui maccheroni, o forse dovremmo dire come crauti con la mortadella. È un libro di letteratura, di quella saggistica geografico-storico-letteraria di cui Consolo è un insuperato maestro, che mescolando letture interpretative di eventi storici e culturali, tessiture di contesti sociali ma anche paesaggistici, tradizioni e profumi, come anche taglienti denunce e scorate prese d’atto (che però - nella paziente prospettiva di una storia di lunga durata - mai diventano rassegnazione) si offre ad una lettura più avvincente di quella d’un romanzo. Una forma di scrittura sua propria questa, che qui Consolo riesce ad esplicitare nelle sue motivazioni morali oltre che estetiche, laddove ci parla del "superamento, in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, spezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida, serena geometrizzazione, escludevano le "voci" dei margini"(p. 282).
Un libro che all’apparenza può sembrare un po’ frammentario, come un insieme di scritti d’occasione. Ma che nella grande coerenza del metodo e dell’ispirazione con cui Consolo guarda alla realtà della sua terra, trova ragioni non solo editoriali, diventando alla fine un grande affresco unitario, una narrazione della contraddizione siciliana per cui "nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, Pirandello Sciascia. Pittori come Guttuso "(p. 271).