Valle del Chiese: signori si chiude!
Il fragile tessuto industriale della zona si sta sfaldando. La ricerca - appena iniziata - di strade nuove.
Mercoledì 3 febbraio l’atmosfera nella fabbrica di Montecchio Maggiore, a pochi chilometri da Vicenza, era quella di sempre. Era prevista una riunione con le rappresentanze sindacali dei tre stabilimenti italiani della Lowara (produzione di pompe idrauliche) e per questo erano arrivate delegazioni da Storo e da Malè.
Alla scrivania c’era Robert Hamilton, presidente della multinazionale proprietaria della Lowara, venuto dagli Stati Uniti per fare il punto della situazione. Mentre Hamilton parlava con l’aiuto dell’interprete, i lucidi scorrevano sulla lavagna luminosa per spiegare il trend produttivo del gruppo. Tutto tranquillo, e pure un po’ noioso, fra cifre e diagrammi, fino all’ultimo lucido. All’improvviso è apparso un titolo crudele: "Chiusura stabilimento di Storo".
I presenti si sono guardati; gli storesi hanno cercato con gli occhi i sindacalisti con lo stupore sul viso. "Ho capito bene?" - si è chiesto un delegato trasognato. Avevano capito benissimo: per lo stabilimento di Storo (77 dipendenti) era stata decretata la chiusura, punto e basta. Inquietanti le motivazioni: non raggiunge un rapporto ottimale fra profitto e produzione. In altre parole, a Storo tutto funziona bene, talmente bene che a Natale i dipendenti hanno ricevuto lo zuccherino di un milione e mezzo a testa come premio di produttività. Peccato che non si guadagni abbastanza, secondo il management al servizio dei 96.000 azionisti della Public Company Itt, notissima multinazionale accusata negli anni Settanta di connivenze con dittatori sudamericani (ahinoi, quanto sono lontani gli anni Settanta!).
In proposito, esemplare per cinismo la storiella raccontata dal direttore generale ad un giornalista: "Una ranocchia in una padella a 25 gradi sta bene, a 35 sta meglio, a 45 muore. Prima di morire è meglio che esca dalla padella". E così, senza tanti complimenti, altre settantasette persone (ed altrettante famiglie) rimangono senza un salario.
E’ una via crucis per la valle del Chiese. Due anni fa toccò alla Nicolini, fabbrica storica della Pieve di Bono, specializzata nella costruzione di bagni di qualità. Poi è toccato nel ’98 alla Rheda ed alla FBZ di Condino, nonché al Calzificio di Storo. Circa duecento lavoratori a casa, affiancati ora da quelli della Lowara.
Il problema nel Chiese (zona a conclamata vocazione industriale) comincia a farsi pesante. Non è un mistero per nessuno, infatti, che altre aziende stiano vivendo in condizioni non floride, per usare un eufemismo. D’altronde stanno venendo al pettine i guai strutturali di una zona di estrema periferia, nella quale negli ultimi tre decenni è cresciuta una consistente presenza industriale, fatta quasi completamente di piccole aziende che lavorano in conto terzi per l’esterno o di aziende più grosse (da settanta a centocinquanta dipendenti) con la testa fuori: unità produttive di multinazionali. Dei due tipi non si sa quale sia il più a rischio: se le piccole aziende, che sono le prime a risentire di ogni soffio di crisi, o le più grosse, che quando sono ritenute non produttive vengono chiuse senza por tempo in mezzo. E’ chiaro (ed è richiesto da più parti oggi) che necessita un ripensamento sulla zona. Molti i nodi sul tappeto: una viabilità più confacente al traffico esistente, ma soprattutto una nuova mentalità della gente ed una collaborazione fra istituzioni ed enti per migliorare la situazione. Su quest’ultimo argomento si stanno lanciando in riflessioni alcuni imprenditori ed amministratori locali: quale sia il risultato non è facile da prevedere. Certo, è vero che nel Chiese (a dispetto di un’industrializzazione diffusa) manca, soprattutto fra i giovani, una mentalità imprenditoriale: pochissimi sono coloro che continuano le attività dei padri imprenditori. Manca anche manodopera ad un livello qualificato: i quadri, per capirci, vengono quasi esclusivamente da fuori.
In un panorama simile le nubi si addensano nel cielo, ma non si sente alcuno spirare del vento che le spazzi via. Se finora in qualche modo la manodopera espulsa negli ultimi mesi è stata riassorbita, cosa accadrà in futuro?
Cosa succederebbe, per intenderci, qualora altre aziende consistenti lasciassero a casa i dipendenti?
La domanda è bruciante. La Nicolini ha lasciato a casa circa centoventi dipendenti. Alcuni si sono ingegnati trovando un lavoro (magari part-time, magari a termine) presso altre aziende. Altri si sono arrangiati alla bell’e meglio con lavoretti vari. C’è da considerare che sono in mobilità, per cui fino ad aprile percepiranno uno stipendio. Bisogna considerare inoltre che quasi tutti, da queste parti, possiedono una casa, perciò non pagano l’affitto; inoltre spesso usufruiscono della legna ad uso interno dei vari usi civici. Il costo della vita, insomma, è certamente meno ele vato che in città. Infine esiste una rete parentale che aiuta i più sfortunati.
Ma cosa succederà da aprile? Chi avrà trovato un lavoro sarà a posto; chi non l’avrà trovato...
Giovedì 11 febbraio, in un Consiglio comunale straordinario super-partecipato, a Storo, sono stati in molti ad interrogarsi sul futuro. Considerando che da almeno dieci anni non un’azienda nuova è arrivata nel Chiese, si può pensare allo sviluppo in altri settori (agricoltura e turismo, per esempio)?
Per potere, si può. Anzi, a nostro avviso, bisognerà cercare strade nuove, pena il passaggio da una disoccupazione lievissima (a un livello meno che fisiologico) al disastro. Ma la gente è preparata a rimboccarsi le maniche e ad inventare nuove attività? Questa è la classica domanda da un milione di dollari, anche se un vecchio proverbio insegna che quando l’acqua tocca la gola...