Malato di Covid: cosa ho imparato
Laura è certa che Andrea, il piccoletto, mi riconosce anche nella foto al telefono. Lo dirà per farmi coraggio? Io non ne sono sicuro. I sogni, di notte, sono dolorosi, paurosi, mi sveglio di soprassalto, sudato, febbricitante. Di giorno mi assalgono pensieri cattivi, violenti, di autopunizione.
Dai primi sintomi al decreto liberatorio passano più di tre settimane, con alti e bassi, un tempo lungo, imprevisto. Oggi, dichiarato “non contagioso”, e poi “negativo” al tampone, mi sento privo di forze. Se uscissi di casa, avrei quasi paura di cadere per terra. Alla solitudine, insopportabile nei primi giorni, mi sono quasi abituato. Però è un dovere, un desiderio, anche rientrare in società, aperto alla speranza.
Per un anno intero mi sono mosso in città serenamente, rispettando le regole: la distanza, la mascherina, le mani lavate. Mai un colpo di tosse, mai una linea di febbre: a me non succederà niente. Per questo, quando un lunedì pomeriggio, dopo aver passato la mattinata con Andrea, giocando con lui, avverto i sintomi minacciosi, rimango sorpreso, incredulo. Quando poi, nei giorni successivi, cadono come birilli, seppure in modo più leggero, anche Laura, Chiara, Franco, e il bambino, mi assale un sottile senso di colpa, da cui nessun ragionamento riesce a liberarmi. Dal padre si salva Francesco, che vive in Giordania, non so quanto al sicuro.
La dottoressa S. M. mi cura a casa, con sensibilità e pazienza, capace di rassicurarmi in un contesto che è di incertezza. Scopro che, oltre il termometro e l’aerosol, esiste un ordigno, il saturimetro, che mi misura l’ossigeno. Sul comodino si accumulano le medicine: la gestione è affidata all’affetto di Laura. Per una radiografia ai polmoni, per la prima volta salgo in ambulanza: mi oppongo a che gli infermieri mi trasportino di peso sulla lettiga. All’ospedale S. Chiara a visitarmi è il dottor C. Dongmo, un giovane medico africano, gentilissimo.
Quando il virus ti afferra, e ti penetra dentro, ti cambia lo sguardo sul mondo e sulla storia, sulla vita e sulla morte. Sono consapevole che si può anche morire. Ogni giorno nella tabella dei contagi e dei guariti compaiono anche i deceduti, e la giornalista del Tg abbassa un poco la voce: nella casella è per giorni il mio uno di quei numeri freddi. Quando sarà il momento, spero di morire con Laura che mi tiene per mano, oggi indico a Chiara sullo scaffale il foglio con le mie ultime volontà. Per un credente la fede è speranza che la morte non sia l’ultima parola. “Con il mio Dio posso scavalcare muraglie” (Salmo 18.30). Ogni sera io e Laura preghiamo con i Salmi, poesie di lode e di ringraziamento, di richiesta e, anche, di contesa con Dio, che cambia il suo volto con il passare dei secoli. Con i Salmi ha pregato anche Gesù di Nazareth. Accetto con gioia che la storia continui anche dopo di me, nello sforzo di accrescere la fraternità fra gli esseri umani.
In questi giorni la resistenza mi viene, dolce, inattesa, dalle centinaia di persone che mi scrivono parole di incoraggiamento. Sono amici, colleghi insegnanti, studenti, persone che ho incontrato nell’impegno culturale, politico, ecclesiale. Ci sono anche firme sconosciute, anche del campo avverso. Sopravviviamo perché ogni giorno qualcuno ci consegna sulla porta di casa ciò di cui abbiamo bisogno.
Ho stima del dott. Giuseppe Parolari e del prof. Davide Bassi. La loro polemica sul numero dei contagi in Trentino però non mi appassiona. Non riesco a immaginare che il presidente della Provincia di Trento, Maurizio Fugatti, tenga nascosto il mio caso per ragioni inconfessabili. Quando chiude il Trentino chiedo la parola a “Prima pagina”. I giornali di carta sono stati uno strumento formidabile nell’educazione linguistica: era la città che entrava nell’aula. Che illustri giornalisti abbiano inventato il concetto di “casta” non mi ha però aiutato nell’educare i giovani alla politica.
Questi sono giorni di sofferenza della politica. “La politica siamo noi, in quanto esistiamo al plurale”, diceva Hannah Arendt. Non sarà l’uomo della provvidenza a salvarci, anche quando, come Mario Draghi, merita il nostro rispetto. Le parole sguaiate che leggo contro i partiti politici mi preoccupano: essi sono associazioni che costruiamo arrancando, come siamo capaci, con le nostre qualità e i nostri difetti. È l’articolo 49 della Costituzione in azione.
Un giorno, conclusa la visita, sul tavolo di casa la dottoressa scorge “Spillover” di David Quammen. “Lo sto leggendo anch’io – commenta - quando ho un momento di tempo”, ma il tono è di chi di tempo ne ha poco. Il libro ci trasferisce nella profondità della storia, a quando, milioni di anni fa, le australopitecine scendono dagli alberi e iniziano a camminare erette per foreste e savane. Contro le malattie infettive l’Homo sapiens ha avuto successo fino a superare i sette miliardi. Contro i batteri e i virus ha inventato la cura degli antibiotici e dei vaccini. Il successo demografico è stato persino eccessivo, pericoloso: oggi avremmo bisogno di prevenzione, per usare le parole di Pietro Greco, di “prudenza ecologica”, cioè di politica, a livello globale. Io, nella sfida, non provo disprezzo, ma compassione. Possiamo avere fiducia? Forse siamo sulla terra ancora da poco tempo, e riusciamo a camminare nella storia soltanto a piccoli passi.
Io, oggi, sono sicuro che il piccolo Andrea mi ha riconosciuto. Mi ha sorriso a lungo.
Vi ringrazio per l’attenzione e la compagnia.