Lee Ranaldo Band
Un rock fra vecchio e nuovo
Alberto Campo, giornalista e curatore della rassegna musicale “Transiti – Musiche in movimento” del Centro S. Chiara, sale sul palco del teatro Sanbàpolis e accenna ai Velvet Undeground, “…epoca alla quale non si può più tornare”. Ma quando comincia il concerto sembra che Lee Ranaldo e band vogliano smentirlo. Il primo brano è infatti eseguito con un archetto da violino su una chitarra acustica in accordatura aperta, il batterista picchia le pelli sorde con le mazzuole, il chitarrista tortura la chitarra distorta, e il tutto riconduce puntualmente a Lou Reed e soci.
Vabbè, è l’inizio, dopo il concerto è anche altro, ma è da loro che si parte. Da chi tanti anni fa ha creato un universo sonoro che non esisteva e, incompreso prima, col tempo è finito per trasformarsi nell’imprescindibile imprinting di tantissimo rock successivo. Quindi: piacere di riconoscimento, sottile nostalgia e perplessità da constatazione che comunque non ci si emancipa completamente mai.
Il rock è finito, scriveva già trent’anni fa il critico e studioso Simon Frith, e quel che è rimasto non fa che rimescolarsi, scrivo io. Ranaldo dunque, a 62 anni suonati, ci ha portato una nuova versione personale di sconvolgimenti rock dalle lontane radici. E va dato merito a chi ancora oggi prova e sperimenta marginalità del genere.
Il concerto del chitarrista continua dunque con un piede nel passato e uno alla ricerca di nuovo appoggio. Schizofrenicamente Ranaldo compone intime ballate acustiche puntualmente disgregate e distorte, spezzettate alternando ritmi o inserendo cori che poi si espandono in vocalizzi quasi sperimentali. E se i bordoni di chitarra acustica sono armonicamente un po’ limitati, forse volutamente, il resto è invece più imprevedibile, curioso, libero. Così ci si lascia trasportare senza problemi nelle distese introduzioni rumoristiche: quasi una specie di reinvenzione psichedelica di suoni e distorsioni, ma non dissacrante e stridente, quanto potente, voluminosa, spesso sabbiosa, fragorosa, a tratti persino lirica. E il bello è che, pure con una tastiera in dotazione, la maggioranza dei suoni resta di sapore analogico: chitarre, batteria, voci, effetti elettrici, effetti umani.
Attingendo materiale dall’ultimo lavoro “Electric Trim”, il repertorio va via via sempre più mescolando sonorità, generi e atmosfere diverse, trovando compattezza e omogeneità nelle esecuzioni live. Molto bella anche la versione live di “Waiting on a Dream” da “Between the Times and the Tides”. E ottimi i musicisti del trio, che comprende il batterista connazionale Booker Stardrum e il polistrumentista catalano Raul Fernàndez Mirò, in arte “Refree”, coproduttore di “Electric Trim”. Un bel concerto.
Due note. 1) Alla fine il mio amico Juanco mi ha detto che il concerto gli era piaciuto di più di quello di Thurston Moore (compagno di Ranaldo nei Sonic Youth) che avevamo visto insieme a Milano qualche anno fa. Io sulle prime ho pensato il contrario, perché quello era stato decisamente più alla Sonic Youth. Ma ora devo dire che ha ragione lui, proprio perché questo provava meglio a essere altro.
2) Per fortuna il pubblico era almeno in quantità dignitosa. Ma il costo contenuto del biglietto e il valore dell’artista meritavano comunque una platea molto più ampia. Vergogna a voi giovani, trentini e fuorisede.