Lettere dal ‘68
Il mio impatto con la violenza di piazza è raccontato in una delle paginette strappate dal quaderno che facevano da supporto alle mie lettere di allora. Firenze, 2 febbraio 1968, età un po’ meno di vent’anni. “Qui la guerra continua, anzi è arrivata all’apice di tensione”: facoltà occupate, scioperi di solidarietà degli studenti medi… A scatenare una fase nuova della protesta è la carica della polizia che si abbatte su una manifestazione in piazza San Marco, sotto il rettorato.
“…noi siamo in 500 (gli altri 3000 se ne sono andati prima) arrivano le sirene, 7 camionette, elmetto – mitra – manganello. Tutti scappano, i primi più pronti si gettano sull’asfalto per opporre resistenza passiva, li sollevano come stracci li sbattono via a uno rimane una gamba sotto una jeep. Le camionette fanno i loro caroselli paurosi, alcuni si rifanno avanti, li picchiano brutalmente col manganello e col calcio del mitra. Qualcuno va all’ospedale, gli altri urlano assassini fascisti puttane (…). Le cariche vanno avanti per un’ora, fino a quando paura, smarrimento, stanchezza hanno il sopravvento e ci si riunisce in assemblea generale a Lettere. (…) Ho avuto tanta paura anch’io”.
Paura ma anche un’aggressività che non mi conoscevo, che mi affannava il petto scappando e rincorrendo. Le lettere che scrivevo a Cristina (compagna di liceo, morosa di Mario, amica cui confidavo senza misura i miei acerbi travagli) sono in una busta del mio archivio più personale: gliele avevo chieste una trentina di anni fa, con l’intenzione che condividevo con altri di acquisire documenti da interrogare con metodi analoghi a quelli che stavamo affinando nella lettura dei diari dei soldati delle grandi guerre.
Il progetto si arenò di fronte alle troppe soglie di pudore che avremmo dovuto varcare, ma quel pacco è ancora in mano mia. Riaprendolo ritrovo, all’inizio della corrispondenza e della vicenda sessantottina mia e di molti come me, la critica della scuola e insieme una vocazione pedagogica prepotente. La lettera è del 4 dicembre 1967:
“Sai come durante il liceo abbia insistito fino all’esasperazione mia e altrui nella critica alla scuola intesa globalmente, nello spirito che la anima. Però sotto mi rimaneva la speranza che fosse l’inefficienza delle singole persone che ci dovevano fare da guida a provocare la delusione e l’apatia. Così mi aspettavo un riaccendersi (o accendersi? Chissà se mai ho avuto questo fuoco) degli interessi culturali. Ma finora è silenzio. Non nego che è presto per dar giudizi, ma l’impressione prima non è positiva”.
L’università mi appariva gravata da un sapere positivistico mentre cercavo un rapporto stretto tra cultura e vita: una sfasatura antica, quasi connaturata al percorso educativo, ma avvertita con impazienza. Un’alternativa ce la indicava con forza la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana: don Milani influiva su di me e sui compagni di generazione che conducevano un analogo percorso molto di più che non i maestri del marxismo che pure ci accingevamo ad adottare come concezione del mondo. “Don Milani ci ha indicato una via, che per me è la via della speranza”. Quella di essere insegnante in una scuola che contribuisse ad abbattere le disuguaglianze sociali; e l’idea che ci scambiavamo era di mettere insieme una scuola popolare in quel Mezzogiorno che credevamo di conoscere, per avervi condotto qualche breve esperienza all’insegna di un cristianesimo comunitario; ma certo agiva anche la suggestione del lavoro di Danilo Dolci in Sicilia.
Ero ormai lontano dal cattolicesimo militante della mia formazione, stando alla mia memoria, e tuttavia le lettere che sto scorrendo richiamano a un fondo comune di religiosità, anche quando a infiammarla è entrata la speranza rivoluzionaria.
Mi scriveva Dario il 17 marzo ‘68, esasperato da quella che gli appariva l’immobilità dell’ambiente universitario roveretano: “Dov’è Cristo? La rivoluzione è entrata in me. Sto cercando, costruendo, distruggendo, amando, odiando. Voglio creare il deserto intorno a me per pregare o per morire”.
Un’atipica lettera spedita da Moncalieri pochi giorni dopo (scritta il 12 e il 13 marzo, rimarca l’autore per far capire il tempo che gli è costata la composizione del complesso e colto collage della misura di 4 fogli A4) ha come retro i colori con cui avevamo imparato ormai da qualche anno a solidarizzare, stella gialla al centro. “Amico, qual è il SENSO di queste mie parole, sul bianco didietro della bandiera viet-cong (anche il simbolo della libertà s’è fatto oggetto di consumo, di acquisto, di vendita; è entrato nella Grande Macchina, o uomo senza miti)”.
Nella mia personale raccolta c’è poi un salto di diversi mesi. Una composita area di studenti roveretani del “movimento” si va aggregando in autunno nell’informale e intensa attività contrassegnata da una sigla, Nuova Sinistra, che non ha né vuole avere i caratteri di un nuovo partito. Una delle sue prime iniziative pubbliche è la diffusione (sulla porta delle chiese) di un volantino di critica radicale delle celebrazioni del Cinquantenario della Grande guerra, con in calce i nomi di tutti gli aderenti. Ne deriva un trauma del quale oggi non è facile apprezzare a prima vista la portata: i firmatari sono noti come “bravi ragazzi”, studenti e studentesse esemplari, “speranze della patria”. Il volantino è ripreso da un giornalino ciclostilato bolzanino, di area vicina al già influente e operoso Alexander Langer. A una parte dell’establishment cittadino appare sacrilego, scatena reazioni furibonde e in qualche caso minacciose.
Una lettera di Pietro, scritta da Rovereto il 12 ottobre, ne fornisce una straordinaria rappresentazione, mettendo in scena una serie di piccole catastrofi famigliari. Una borsa di studio a repentaglio, più di una madre in lacrime, alcune sfide a muso duro tra padri e figli. Un ruolo di punta svolge nell’occasione il nostro insegnante di religione, don Longo, del quale apprezzavo per esperienza l’umanità, ma che di fronte alla minaccia sovversiva si abbandona a uno zelo disciplinatore da epigono di Agostino Gemelli. Dimostrando una capacità di rilancio in avanti già matura, Nuova Sinistra promuove di lì a poco un dibattito presso Cultura Viva, il 3 novembre, con una densa e ardua conferenza di un trentenne Mario Isnenghi, autore ancora recente de I vinti di Caporetto. Pubblicato da noi come elegante opuscolo qualche mese dopo, quell’intervento si può considerare il remoto antecedente di un tenace ciclo di riflessioni e ricerche non ancora terminato e culminato di recente in due grandi libri, La guerra verticale di Diego Leoni (uno dei contestatori di allora dalle pagine del giornalino liceale “Il girasole”) e ora Cento anni di Grande guerra di Quinto Antonelli, che alla memoria divisa di quell’evento tragico dedica un lavoro di straordinario spessore.
Tra il ‘68 e il ‘69 compaiono nelle nostre lettere, come in tutta la vicenda del movimento studentesco, gli operai. Pietro scrive dal Politecnico di Torino, “durante un’esercitazione più che noiosa”: “Ti annuncio con orgoglio che ero nel gruppo di studenti che sono riusciti a metter piede in uno stabilimento FIAT. Credo che sia la prima volta che accade nella storia del mov. stud.”. Compiacendosi dell’astensione da ogni violenza anche minuscola, dell’attenzione dei manifestanti a non coinvolgere gli operai in comportamenti da loro non decisi.
In una lettera di Mario del 28 gennaio 1969 è annunciata l’uscita imminente di un foglio di inchiesta e di intervento della Nuova Sinistra roveretana, “Coscienza politica”. Tra le principali linee di lavoro, “un intervento molto più diretto con gli operai (alcuni sono restati entusiasti del giornale e specialmente del fatto che siamo ritornati da loro per farglielo vedere, discutere, correggere)”.
Le tre pagine di quaderno di Mario, il più dinamico e positivo di noi come militante politico, sono ricche di progetti d’azione, di cose concrete avviate. Ma sono anche animate da uno sguardo lungo, nel solco di un cristianesimo rivoluzionario che interagisce a tutto campo con quanto si sta muovendo in un universo ideale e sociale che appare tutto in rapida trasformazione.