Vacanze a Miami
Prosegue il nostro (costoso) viaggio nell’America di Trump
Come da programma, la vacanza americana si sposta da New York alla Florida. Aereo all’una, due ore di code, perquisizioni, attese, ritardi, tre di volo e siamo all’aeroporto di Miami, sfilza esagerata di attività commerciali fra pizzerie (anche tre una dietro l’altra) edicole, agenzie di viaggio, ristoranti, chincaglierie, tabacco, da far pensare a un centro commerciale da cui partono anche gli aerei. Noleggiare un’auto è qui più abbordabile, così ci concediamo un duemila extracomfort, tanto la benzina non è un problema: 2,10 dollari a gallone, 60 cent al litro. Del resto, pensare di girare a piedi o in bus è impensabile, perché la città si allunga afosa, caldissima, umida, per 100 e più chilometri sull’Atlantico.
Ci porta in centro un’autostrada a 10 corsie trafficatissime che svincoli a tre piani riducono in centro a 3-4 corsie. E subito una multa da 188 dollari per esser passati col rosso: ci arriverà comodamente servita a casa dalla società di autonoleggio che ha anticipato per noi i soldi allo stato: se non pagate, la prossima volta ci troverete al check in!
Troviamo alloggio con Airbnb all’Intercoastal di Sunny Isle, una serie di edifici a 25 piani, due piscine, palme, guardia armata e oceano a pochi minuti. Prezzo: 80 metri per 140 euro al giorno, vale a dire 35 dollari a testa in quattro: ragionevole. La spiaggia a 300 metri e non più larga di un campo da tennis, è assediata da grattacieli da 30-50 piani, così fitti da lasciare tra uno e l’altro lo spazio di un vicolo; ma se tutti gli inquilini scendessero in spiaggia contemporaneamente, dove li impilerebbero?
Naturalmente Miami non è tutta beach, skycrapers, piscine, cinema, finanza e decapottabili: c’è anche spazio per il Lumpenproletariat.
Solo qualche chilometro dall’oceano e le megaville da sei zeri e i grattacieli da turisti svaniscono per banali condomini da 40 piani. Oltre, ancora la città dei bikini, drinks e feste in spiaggia diventa un susseguirsi disordinato di case pressappoco, poi di baracche trasandate; nessun Mc Donald’s né saloni di motoscafi o negozi di souvenir. Qui uno dei pochi “job” a reddito garantito è il cacciatore di clandestini: li rapinano a mano armata e a rischio zero: quelli non si precipiteranno certo dallo sceriffo! Non manca, incredibilmente, nemmeno qualche mendicante con faccia da yankee e fare circospetto nell’allungare la mano: elemosinare qui è proibito, in zona è quasi d’obbligo la giuliva soddisfazione di esser qui.
La spiaggia e i coccodrilli
Da buoni provinciali, il primo pomeriggio si va a Miami Beach, una piccola parte della città ma spacciata come immagine copertina per tutta. Parcheggio a tre dollari l’ora per le prime tre ore, ma se ti attardi in acqua un attimo, il costo per le seguenti arriva a 7.
La spiaggia è una comunissima striscia di palme e sabbia animata da jogger, raccoglitori di conchiglie, bagnanti sotto l’ombrellone e gruppetti di mature turiste con visi da polipi disidratati. Ma dove sono i tipi da spiaggia di cinema e Tv, le bay watch allestite alla Pamela Anderson, quelli con occhiali a curvatura personalizzata, i poliziotti Ray Ban e pistoloni, gli yacht da cento metri, la gioventù palestrata e il blu intenso dell’oceano? Invero, l’acqua tende al grigio-verde, la risacca voltola le alghe, i grattacieli - casermoni fin quasi sul bagnasciuga - eclissano il sole e il traffico da tangenziale. Non sarà che i film se li gira l’azienda di soggiorno?
Contattiamo Alex, un immobiliarista di Trento con interessi qui, per qualche dritta. Già un po’ americanizzato, ci dà appuntamento in un centro commerciale a venti chilometri da Sunny Isle, praticamente dietro l’angolo per le dimensioni della città.
Il parcheggio, grande come una pista di aeroporto, rimanda all’ossessione degli americani per la grandezza, ma una volta dentro pare perfino sottodimensionato: corridoi larghi come strade sboccano in piazze con fontane e aiuole, negozi di ogni genere, cinema multisala, un mezzo lunapark per bambini, un’area fantasy, l’immancabile sicurezza armata e gente, tanta gente da sgomitare.
La struttura è tanto enorme che ci sono ben due McDonald’s con in evidenza McVeggy, hamburger di zucchine, melanzane, peperoni grigliati, pomodoro fresco e insalata, in ottemperanza al locale credo salutista. Pezzo- forte, un salone coperto delle misure di un campo da calcio dedicato alle cucine etniche di tutto il mondo, anche le più improbabili: eritrea, mozambicana, malese, cambogiana, peruviana. Si sceglie saltabeccando dall’una all’altra e ci si siede ai tavoli in mezzo tentando di mangiare prima che l’aria condizionata onnipresente, gelida, micidiale sul collo e in funzione a prescindere, ti congeli il piatto sotto la forchetta.
Alex ci raccomanda di acclimatarci uno-due giorni prima di esporci al sole del tropico, così su suo consiglio andiamo a vedere dal vivo i temibili coccodrilli del lago Okeechobee, un centinaio di chilometri dalla città.
La strada corre in una pianura piattissima con rarissime case in mezzo a piantagioni di canna da zucchero di cui non si scorge il limite neanche dai ponti stradali più alti.
Non faticano certo a far dollari i farmer di qui: solo macchine dalla semina al raccolto, irrigazione garantita da temporali quotidiani, niente manodopera, nessun albero ad intralciare il lavoro. L’ha proprio assemblata bene dio l’America: a est carbone e ferro per l’acciaio, al centro grano e carne, a nord boschi, a sud petrolio e spiagge.
L’accesso al lago è Pahokee, una strisciata di case in legno con periferia di baracche da cantiere stradale anni ‘60. D’acchito, lo specchio d’acqua, verde cupo, liscissimo, profondità massima tre metri, fitti canneti e pesci, fa venir in mente un pensionato per alligatori, tanto più che sei-sette dei “temibili coccodrilli”, svaccatamente a bagno con le narici a pelo d’acqua, danno l’impressione d’esser in attesa di noi, i turisti: infatti, per mostrarci anche testa e coda, tu dare soldo, tu vedere cammello, bisogna tirar loro qualcosa.
Com’è difficile giustiziare!
Mentre siamo in balia degli umori degli alligatori, qualcuno in Florida ha ben altre preoccupazioni: si discute su come “terminare” (in linguaggio schwarzeneggeriano) Mark Asay, suprematista bianco e 23° condannato a morte in Florida per due omicidi a sfondo razziale. Fa parte di quei bianchi che, nonostante godano di molti privilegi, hanno la sensazione che quanto spetta loro venga dato ad altri, neri e messicani in primis. Faccia da durissimo, labbra appena pronunciate e sopracciglia aggrottate, è “stoccato” in galera da trent’anni, pena di per sé già abbastanza consistente per qualsiasi reato. Invece è stata solo il preludio al lettino dell’iniezione. Tutto sospeso per un inghippo, però: le case farmaceutiche non vogliono associare il proprio nome alla condanna a morte di chicchessia e rifiutano alla contea il midazolam: “Noi i medicinali li facciamo per far star bene la gente…”.
Il governatore Scott, successore di Jeb, il meno sveglio del trio Bush, trumpiano acritico, compulsivamente anti tasse, pro pena di morte e anti Obamacare per certi suoi affarucci nelle cure sanitarie, ha così scovato in alternativa l’etomidate, la cui efficacia però è incerta. Sapremo a casa il 25 agosto che Asay è stato effettivamente terminato con il nuovo medicinale.
Miami non è solo spiagge per vacanze ma anche città di affari e traffici, con un downtown in concorrenza con Manhattan: grattacieli eleganti ed altissimi dei colossi dell’economia globale - Microsoft, Exxon, Sony - e banche. Naturalmente per palazzi, aziende o azioni non c’è alcun ban trumpiano all’acquisto, considerato l’odore di petrolio di buona parte dei soldi degli investitori… pecunia non olet!
Fra negozi e ristoranti
Camminiamo tra gente compita con borse da scartoffie a molti zeri e macchine dalla Porsche in su, ragazzo di bottega incluso, vie alberate, aiuole fiorite, negozi dei marchi di lusso, ristoranti con menù da mutuo. Improvviso fa slalom tra auto e passanti un ciclista in tanga arancione con bretelle e casco, forse un fricchettone, forse uno da strip bar o solo un pacchiano. Lo seguiamo in auto con commenti tra il sorpreso ed il salace, ma per i criteri di qui deve rientrare nella normale quotidianità perché proprio nessuno lo guarda.
Ultimi giorni di vacanza e, a testimonianza del viaggio, andiamo in cerca di negozi di souvenir. Ne troviamo uno grande come un Poli sull’isola Marathon, a metà delle Florida Keys, una serie di isolette boscose collegate da ponti, Atlantico da una parte, golfo del Messico dall’altra. Scampati all’entrata ad una mazzata di aria gelida, si fa incontro il proprietario, che si complimenta perché siamo italiani, lui stesso ha avuto un antenato di quelle parti o forse è stato una volta in Italia, si gratta la testa e ci indica le vetrine: pescecani impagliati, mascelle di pescecane, pescicani gonfiabili, conchiglie con dentro un pescecanino, magliette e tute con pescecani, scheletro di pescecane, fucili antipescecane, gonfiabili a pescecane e - incredibili dictu - un tavolino con zampe di giraffa.
Per il commiato Alex ci dà appuntamento per cena con sorpresa sull’Ocean Drive, celebrata strada di feste, night, starlette, musica, ristoranti, discoteche, “assolutamente da non perdere” - garantisce! Effettivamente se uno vuol dar fondo alla carta di credito, il posto è imperdibile: un centinaio di dollari per 5 gamberoni wasabi con mango e passion fruit (bevande escluse), 200 per una grigliata mista di Angus, gamberoni e agnello oppure, se si cerca l’exploit, caviale beluga, aragosta e champagne a 500. Ci accontentiamo di una fritturina così così da 70 dollari, incastrati tra tavoli e gomiti di turisti in cerca della Versace Mansion, la casa da 60 milioni di Gianni, uno dei miti più vivi d’America. La sorpresa è un suo amico romagnolo, che ha aperto un posticino che vale la pena. L’opportunità suona bene anche alle signore, andiamo!
In realtà il posticino, quasi nel downtown, è un mix tra discoteca un po’ osé e uno strip club personalizzabile a bigliettoni verdi, qui in America davvero l’unità di misura di ogni cosa! Intrattenimento per tutti: cabaret, nightclub, burlesque, pole dancing, Dj live, giochi di luci, quattro bar a luci basse e comodi divani, ristorante open finché c’è qualcuno, stanze ad accesso separato con trattamento ad personam..
Arriva l’amico - faccia da don Camillo che sta per fregare Peppone - che saluta gioiosamente: “Ciao Italiani!”. Ci parla della robina che ha messo in piedi: uno showclub per un pubblico eterogeneo (più ce ne sono meglio è) e diversificato (è ammesso qualche raro povero), un locale con il meglio della notte, dal cabaret al nightclub hi-tech, dallo strip al privé. Prezzi? Un tavolo anche mille dollari, un privé il doppio! Funziona? Dalla pioggia di dollari sul pavimento e dentro i tanga delle stripper sì: diluvia tutte le sere!
Intanto le danzatrici si esibiscono nella pole dance, la danza attorno ad un palo metallico in mezzo ai tavoli: ogni tanto si avvicinano ammiccanti per poi lanciarsi feline su per il palo, si contorcono in pose sensuali, si allontanano, accarezzano languidamente uno spettatore dagli occhi strabuzzati che pronto le ricambia infilando banconote sotto la poca biancheria addosso, tornano al centro dei tavoli e fanno l’inchino. Tocca al pubblico, single ma anche coppie e gruppi di donne, esibire il proprio compiacimento con applausi, fischi e lancio di bigliettoni, i nostri compresi.
Il giorno dopo, 14 luglio, vigilia di bagagli. Alla nostra carta di credito è andata maluccio ieri sera, uscite equivalenti a 3-4 giorni di vacanze, così per dichiarare chiuso il viaggio, cerchiamo un locale che non la stressi ulteriormente.
Sotto i 50 dollari, a meno di 500 metri dalla spiaggia, ci sono però solo hamburger con patatine, ketchup e secchio di Coca Cola! Meglio in riva all’oceano di Sunny Isle con quattro birre da acquistare nel supermercato dietro casa. La cassiera, pronta, ci fa presente che in Florida è proibito berle all’aperto. Il rimedio? Renderle invisibili dentro sacchetti di carta; adesso sì, buona bevuta!
Illuminati dalla poca luce che cade giù dai grattacieli, brindisi in spiaggia, foto con piedi a mollo e vacanza chiusa: domani a casa finalmente, almeno per un po’.