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A 80 anni dal colonialismo di Rodolfo Graziani

Uno sguardo all’Italia in Etiopia negli anni ‘30 attraverso un documentario che parla anche di oggi

Valentina Lovato
Affile, il sacrario dedicato a Rodolfo Graziani

Che cosa rimane dell’esperienza coloniale italiana? A chi non ha approfondito attivamente l’argomento, cioè non si è preoccupato di studiarlo per conto proprio e si è accontentato dei vaghi ricordi scolastici, restano informazioni spesso imprecise e solitamente una buona dose di confusione rispetto ai discutibili meriti e alle dimenticate colpe dell’esercito fascista.

A colmare questo vuoto di conoscenza appaiono a volte piccoli portenti della divulgazione, come il film “If only I were that Warrior”, documentario del regista Valerio Ciriaci, presentato a Trento lo scorso 10 novembre in una proiezione pubblica organizzata dal Club Alpbach Trentino.

Il film, racconta il regista, nasce da un episodio controverso della cronaca recente: nell’agosto del 2012 è stato inaugurato ad Affile, un piccolo paese della provincia romana, un monumento di stampo fascista dedicato alla memoria del generale Rodolfo Graziani, che proprio lì trascorse i primi e gli ultimi anni della sua vita e venne poi sepolto.

L’edificazione del monumento ha provocato numerose proteste e manifestazioni da parte delle comunità etiopi di tutto il mondo, sconvolte e risentite al pensiero che un’istituzione pubblica italiana, il comune di Affile, avesse ritenuto opportuno celebrare la figura di un personaggio storico la cui moralità si può perlomeno definire ambigua.

Il Comune aveva ricevuto, nel 2008 e nel 2009, un finanziamento regionale destinato alla creazione e al completamento del Parco Radimonte e alla realizzazione di un monumento al milite ignoto; un progetto che si è poi trasformato in corso d’opera in un ingombrante omaggio al generale fascista, provocando una legittima denuncia da parte dell’ANPI e la conseguente apertura di un’inchiesta della Procura di Tivoli ai danni del sindaco Viri e due assessori, in un processo in cui Marzabotto e Stazzema, città medaglia d’oro per la Resistenza, si sono costituite parte civile.

Tuttavia la questione non è ancora risolta: nonostante Zingaretti, presidente della regione Lazio, abbia provveduto alla sospensione del finanziamento, il “Sacrario al soldato Rodolfo Graziani” non solo rimane in piedi, ma spicca tra i luoghi d’interesse segnalati dal sito del comune.

La tenacia con cui questo monumento è stato voluto e rivendicato è sintomatica di un Paese che non ha ancora fatto i conti con il proprio passato, che da un lato tende a minimizzare quando si tratta di riconoscere le proprie responsabilità storiche, e dall’altro non possiede alcuna accorta sensibilità nel rispettare coloro che, di tale passato, possono essere indiretti testimoni.

Nonostante la scarsa attenzione ricevuta dai media italiani, la notizia dell’inaugurazione del monumento è stata largamente ripresa dalla stampa internazionale, europea e americana; la domanda che risuonava ovunque riguardava il perché alcuni italiani sentano la necessità di omaggiare un personaggio storico dal comprovato trascorso criminale, colpevole di documentati e raccapriccianti crimini di guerra.

Chi era Graziani

Rodolfo Graziani

Rodolfo Graziani, fervente sostenitore del regime fascista, prima di tornare in Italia e diventare comandante delle forze armate della repubblica di Salò, ricoprì, fra le altre, le cariche di governatore della Cirenaica e viceré d’Etiopia, e condusse numerose campagne di conquista in Libia e nel Corno d’Africa. In Cirenaica come in Etiopia, Graziani si distinse per la ferocia con cui cercò di reprimere i movimenti di resistenza locali: forte del sostegno di Mussolini, con cui intratteneva una corrispondenza frequente e dettagliata e da cui era appoggiato nell’utilizzo di metodi di dominazione violenti, non si risparmiò nel ricorrere a gas e fucilazioni di massa, a deportazioni e massacri.

Alcuni anni dopo, tra il ‘43 e il ‘45, rivolse la sua dedizione alla repressione anche contro i renitenti alla leva e i partigiani italiani. Tali azioni furono riportate in documenti ufficiali dallo stesso Graziani, compiute con orgoglio e ispirate da un profondo amor di patria; fu quindi relativamente semplice individuare le sue responsabilità, ma nel dopoguerra fu processato e condannato (a 19 anni di reclusione, di cui scontò solo qualche mese), soltanto per ciò che compì durante la Repubblica Sociale.

Per lui come per molti altri militari italiani, che in Africa si macchiarono delle peggiori colpe in nome di un espansionismo che, oltre ad essere insensato, fu anche anacronistico, perché in ritardo di qualche decennio rispetto allo Scramble for Africa e collocato in un periodo in cui nelle regioni occupate stavano iniziando a svilupparsi i primi movimenti per l’indipendenza e l’autodeterminazione, non è esistita una condanna ufficiale, una gogna pubblica. Questo ha contribuito alla loro mitizzazione nevrotica da parte di una destra nostalgica che, a quanto pare, deve recuperare dal passato i propri discutibili, modelli; ma ha anche evitato che in Italia ci fosse un confronto aperto e consapevole su quello che era stato definito, in modo innocuo, un posto al sole: si è rafforzata sempre più la convinzione che gli italiani si comportarono meglio degli altri conquistatori, che furono generosi costruttori di infrastrutture e benvoluti dalle popolazioni soggiogate.

Provare a mettere in fila gli eventi

Il regista Valerio Ciriaci

La prima e più autorevole voce che portò l’attenzione su questi fatti fu quella di Angelo Del Boca; ed è proprio partendo dalle sue ricerche che anche Ciriaci, quando ha deciso di girare il film “If only I were that Warrior”, ha iniziato ad approfondire l’argomento del colonialismo italiano. Il film, opera pluripremiata a livello internazionale, proiettato a festival come in ambienti accademici, si sviluppa in diversi livelli temporali e spaziali, e fa dialogare ideologie e punti di vista differenti, in un equilibrio imparziale ma militante, che mette a nudo imprecisioni e falsi miti senza bisogno esplicitarlo.

Il regista riesce a parlare del passato di due nazioni, l’Italia e l’Etiopia, partendo dal presente di diversi personaggi che si muovono fra Affile, Addis Abeba e New York. Nella città americana è nata l’idea di realizzare questo film, quando Ciriaci ha assistito alle prime proteste da parte della comunità etiope; attraverso questa ha conosciuto Nicola, uno dei protagonisti, un italo-americano figlio di coloni italiani che dopo aver vissuto nel Corno d’Africa emigrarono negli Stati Uniti; lui rappresenta un fermo antifascismo che è anche strettamente collegato a un senso di colpa personale, o meglio famigliare, da espiare. Ad Affile incontra invece il sindaco Viri, convinto sostenitore della legittimità del sacrario a Graziani, e Mulu, una donna etiope che vive in Italia da vent’anni e sta invece combattendo una battaglia contro il monumento e quello che rappresenta. In Etiopia lo spettatore è accompagnato da Giuseppe, un agronomo italiano che vive e lavora lì, e forse raffigura quella leggerezza e quel sentimento tutto italiano di prendere poco sul serio il passato di cui sopra, in una combinazione di saggezza e luogo comune (che comunque pende più per il secondo). Tutt’attorno gravita una decina di personaggi secondari che aumenta la complessità della Storia e moltiplica le informazioni, in un racconto corale che restituisce allo spettatore una buona sintesi e lo spinge a saperne di più.

E alla luce di questo il titolo “If only I were that Warrior”,, traduzione del recitativo dell’AidaSe quel guerrier io fossi”, acquista una molteplicità di significati che impone di non guardare più a quella particolare Storia da un solo punto di vista, il nostro, ma di spostare lo sguardo dall’altra parte, e di lato, e dall’altro lato ancora, fino a non capire quale guerrier si è.

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