I perché del terrorismo
Notiziari (televisivi, persino radiofonici) che sembrano trailer cinematografici, spezzoni di telefilm d’azione tanto spettacolari quanto abituali, allo stesso modo enfatici e scontati; e dunque in fondo cinici sul piano deontologico - nella esaltazione degli aspetti più eclatanti ed efferati della notizia - e nel contempo (di fatto) complici, anche se involontari, del terrorismo in quanto sua cassa di risonanza. I giornali, a loro volta trasformati in strilloni, dedicano pagine ai dettagli più patetici, alle varie tragedie personali delle vittime, come nei film catastrofici, o all’indignata reazione di autorità politiche e religiose o intellettuali, e al loro appello a far fronte comune contro il male.
A che serve tutto ciò? A nulla, o a ben poco: a diffondere in realtà la paura, da una parte, e a ribadire, dall’altra, verità ovvie (l’importanza della libertà, della tolleranza, della democrazia ecc.). Mentre servirebbe invece cercare di capire quel che succede, per saper cosa fare: ma all’analisi dei fatti, all’approfondimento vero è dedicato assai poco spazio, almeno nella quotidiana comunicazione mediatica; riviste specialistiche per addetti ai lavori, probabilmente, se ne occupano, ma l’informazione normale è quella sopra descritta. Possibile che non ci sia una via di mezzo, che non si riesca a trovare un livello intermedio che permetta almeno il tentativo di comprendere, e che riesca anche a tradursi in coscienza collettiva e in conseguenti azioni politiche? O è possibile che non lo si voglia?
Eppure alcune cose elementari dovrebbero essere evidenti a tutti.
La prima: il terrorismo è possibile perché esistono vaste masse di diseredati che proprio per questo sono sensibili al richiamo del fanatismo religioso più radicale. Detto così, sembra semplicistico, ed è volutamente schematico: vale per alcuni paesi non per tutti, vale per la Siria e la Libia, per l’Irak e la Nigeria, non per la Tunisia o l’Egitto, o vale comunque in misura diversa per gli uni e per gli altri. Ma per capirlo dobbiamo metterci nei loro panni: renderci conto, noi che viviamo in questo mondo, di cosa significhi vivere in un mondo privo di tutto, tranne che del petrolio prelevato e sfruttato da altri; un mondo povero di acqua e di cibo, fatto di capanne o brutte megalopoli sovraffollate, senza strade e mezzi di trasporto, senza ospedali, scuole, servizi sociali, senza democrazia e magari pure in guerra; in un mondo simile, dove non si ha nulla da perdere, è facile cedere alle lusinghe di un messaggio religioso che promette il contrario, e arruolarsi in una guerra santa contro chi invece ha tutto e ce ne tiene esclusi con ogni mezzo,anche quando, da immigrati, riusciamo pericolosamente a oltrepassare la barriera che ci divide, ma restiamo poi confinati ai margini della società, nei centri di accoglienza o nelle periferie più degradate, alla mercé di sfruttatori e criminali... o dei reclutatori del terrorismo.
La seconda cosa evidente però è questa: oltre alla carne da cannone servono pure i cannoni. Il terrorismo cioè è possibile anche perché qualcuno gli fornisce i mezzi, economici e militari, per esistere. Pare che tali risorse siano messe a disposizione principalmente da regimi politici di tipo feudale-tribale e autoritari che governano l’area medio-orientale (ma non solo) e ciò sarebbe perfettamente logico: simili regimi infatti, sostenuti economicamente dalla vendita del petrolio alle compagnie multinazionali, hanno tutto da guadagnare da un terrorismo che, scaricando verso l’esterno la disperazione popolare, permette a loro di rimanere in piedi atteggiandosi anzi a paladini dell’identità religiosa dei loro sudditi; è perfettamente comprensibile, dunque, che siano proprio loro a fomentare e alimentare il terrorismo.
Ma a questo punto dovrebbe essere evidente anche la terza cosa: che dovrebbe fare l’Occidente per contrastare tutto ciò? Facile: dovrebbe colpire questi regimi, isolarli politicamente, disarmarli economicamente, e contemporaneamente intraprendere ogni iniziativa possibile per eliminare la base del consenso di cui godono, vale a dire la povertà dei loro popoli, attraverso una politica di investimenti e aiuti che permetta davvero una crescita economica e sociale di quei paesi e una loro evoluzione in senso democratico. E invece che ha fatto finora? Ha mantenuto strette alleanze proprio con quei regimi e si è garantito l’approvvigionamento petrolifero rovesciandone altri attraverso guerre sanguinose che hanno colpito anche o soprattutto le popolazioni civili, suscitando ed esasperando il loro risentimento, ha venduto armi a quei regimi (e probabilmente pure ai terroristi) lasciando le briciole degli aiuti alle organizzazioni umanitarie. Una linea perfettamente coerente pure questa, per le multinazionali del petrolio e delle armi, non per una politica mondiale di pace.