Un’onda di solidarietà
La città dice sì ai profughi
Mentre scrivo (6 settembre), quindicimila profughi sono arrivati alla stazione ovest di Vienna, provenienti da Budapest e diretti verso la Germania, dove Angela Merkel ha sospeso gli accordi di Dublino (secondo i quali i profughi vanno rispediti al paese dell’Unione dove avevano per la prima volta attraversato una frontiera UE): “La breve estate dell’anarchia” - titolava il cronista della Presse.
Una settimana prima, diecimila persone erano sfilate in corteo per le vie della capitale, al grido di “Benvenuti profughi”, in barba ai predicatori dell’odio xenofobo della destra estrema. Come nei tempi (che molti credevano passati per sempre) della rivoluzione ungherese del ‘56, dell’invasione sovietica a Praga del ‘68, o della guerra nell’ex-Jugoslavia alla fine del millennio. Anche per chi fugge dalla guerra disastrosa in Siria, dal terrorismo dello “Stato Islamico”, o di altre milizie terroristiche nell’Afghanistan o nella Somalia, l’Europa deve aprire le frontiere, offrire protezione e soccorso.
Ma non hanno solo manifestato: quando il governo ungherese ha deciso di lasciar partire le migliaia di profughi naufragati alla stazione Keleti di Budapest, i viennesi si sono mossi e centinaia di volontari, senza che nessuno li avesse chiamati, con le lacrime agli occhi sono arrivati alla stazione con cibo, acqua, vestiti, e per chiedere cosa di utile potessero fare per assistere i professionisti delle organizzazioni di soccorso. Mentre il solito Heinz-Christian Strache, leader della destra, alla radio farneticava che bisognava tener fuori i musulmani e accettare esclusivamente profughi cristiani, per salvaguardare “l’Occidente cristiano” dall’islamizzazione, la società civile si era data appuntamento alla stazione per dare, cristianamente, una mano a chi ne aveva bisogno.
Mentre, in questi giorni, in molti, quasi tutti, si dirigevano verso la Germania, sono arrivati anche tanti per chiedere asilo in Austria: 80.000 in quest’anno. I quali, durante le pratiche per accertare lo status di profugo (secondo la Convenzione di Ginevra), vengono distribuiti dal Ministero dell’Interno nelle varie regioni, che devono trovare posto per loro secondo un sistema di quote. A Innsbruck, per il momento, sono in più di 2.000, con il che stiamo superando la quota che ci spetta.
La sindaca, con l’appoggio di tutta la giunta, dice chiaro e tondo: “Spetta all’amministrazione federale stabilire chi ha diritto all’asilo e chi no. A noi, non importa niente. Ora come ora, sono qui, e dobbiamo sistemarli degnamente”.
Noi, come comune, non possiamo né fermare le guerre né cambiare la politica vergognosa dell’UE. Ma facciamo quello che è umanamente possibile: dargli un alloggio decente e aiutarli a riorganizzarsi una vita (pressoché) normale dopo esperienze probabilmente traumatiche. Poi vedremo.
Bisognerà quindi aiutarli ad inserirsi nella nostra società urbana.
Si è costituita una grande rete di solidarietà, dalle parrocchie alle associazioni culturali e sportive fino ai gruppi politici del Consiglio, con centinaia di volontari che si occupano di tutto: raccogliere fondi e beni utili ai profughi, organizzare il primo insegnamento del tedesco, organizzare gite per la città, giochi per i piccoli, partite sportive o jam-sessions musicali. Viviamo certo nell’emergenza, ma la città se ne mostra all’altezza.
I valori europei non esistono soltanto nelle liturgie politiche. La società civile urbana, con l’appoggio di una maggioranza decisa del Consiglio e con l’ottimismo della volontà, invece di costruire muri alle frontiere può costruire ponti e dare speranza a chi ha dovuto lasciare il paese dove è nato..