Verdi. Narrar cantando
Parole e musica
Chi andava all’opera in Italia, nell’Ottocento, andava a sentire musica contemporanea: da più di cent’anni, invece, andiamo a teatro a sentire roba vecchia. Verdi, da buon rivoluzionario, ci ha fatto diventare conservatori. Così Paolini riassume l’opera del maestro di Busseto, del nostro “Garibaldi musicale”, che ancora riesce a unire musicalmente gli italiani, che conoscono e canticchiano tutti almeno due o tre tormentoni delle opere verdiane: dal coro dell’Aida ai “lieti calici” della Traviata. Certo, Verdi è l’unico caso: per il resto gli italiani sono uno dei peggiori casi internazionali di ignoranza musicale (per demerito quasi esclusivo del sistema dis-educativo della scuola tutta, dall’asilo all’università, che prevede solo tre anni di educazione musicale obbligatoria, alle medie, fatta da un docente realmente preparato). E se poi mettiamo insieme Verdi, il violoncello di Mario Brunello e un attore come Marco Paolini, beh...l’ auditorium Melotti di Rovereto fa il tutto esaurito.
La chiave di lettura dello spettacolo è il rapporto di Verdi con i testi delle sue opere e quindi con i suoi librettisti, in particolare Francesco Maria Piave e Arrigo Boito, un “fighetto padovano a Milano”; da imberbe scapigliato considerava Verdi un imbrattatore dell’arte, ma poi cambiò idea e realizzò con lui un capolavoro sconvolgente per il pubblico dell’epoca come l’Otello, scritto alla fine della carriera dopo l’incontro con Wagner, e tanto dirompente da essere “come Modugno che a sessant’anni canta Satisfaction”.
Paolini è narratore eccezionale: diverte e commuove, mentre racconta del maestro che battagliava con i suoi librettisti, perché lui le sue opere le voleva curate in ogni dettaglio, non solo nella musica, ma anche nei testi, nella recitazione e nelle scenografie, mettendo becco su tutto. È però cifra stilistica di Paolini il coinvolgimento emotivo del pubblico: e allora, accanto ai mille colori del violoncello di Brunello (pur con qualche sbavatura forse un po’ troppo evidente), a cadenzare musicalmente il racconto assieme all’armonium di Stefano Nanni e alla voce di Francesca Bresci c’è... il coro del pubblico. Che interagisce con lo spettacolo e canta i cori verdiani, imparati il pomeriggio alla lezione aperta tenuta da Brunello e dalla Breschi. Poi alla fine tutti ammutoliscono, quando le parole di un Filippo Tommaso Marinetti non ancora futurista raccontano la sterminata folla silenziosa di Milano ai “funerali di un dio”. E forse davvero Verdi avrebbe voluto che finisse così, dopo gli applausi di rito, col pubblico dell’auditorium ancora commosso che si riveste ed esce cantando, per l’ultima volta, la speranza di felicità di Alfredo e Violetta: “Parigi o cara noi lasceremo, la vita uniti trascorreremo: de’ corsi affanni compenso avrai, la tua salute rifiorirà...”.