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Porfido: chi paga la crisi?

Walter Ferrari, Kamber Mazlami

Fin qui il settore del porfido, che occupa attualmente circa 900 lavoratori, è stato caratterizzato da una escavazione selvaggia delle montagne. Un vero saccheggio, se si pensa che un metro cubo di roccia, estratto da montagne che sono un bene della collettività, viene pagato quanto un caffé! A questo si sono aggiunte scelte imprenditoriali che hanno esternalizzato alcune fasi produttive mano a mano che si assottigliavano i margini di profitto (vedi in particolare la produzione di cubetti).

Così da 15 anni in qua si è assistito al proliferare di piccole ditte artigiane, legate a doppio filo (fornitura del grezzo e commercializzazione del finito) alle maggiori aziende del settore, nelle quali hanno trovato occupazione perlopiù lavoratori extracomunitari (albanesi, macedoni, arabi e cinesi). Ciò ha reso possibile la massima compressione del costo del lavoro reintroducendo il cottimo puro (buste paga ricostruite sulla base della produzione effettiva di cubetti retribuita a circa 2 euro al quintale), allungando gli orari di lavoro, evitando di pagare la cassa integrazione invernale, le ferie e facendo pressioni per limitare le assenze per malattia, occultare il più possibile gli infortuni, peggiorando nel contempo le condizioni di lavoro dal punto di vista della sicurezza e della prevenzione delle malattie professionali. Ed è su queste aziende, e soprattutto su questi lavoratori, che si è fin qui scaricato il peso della crisi attraverso l’ulteriore precarizzazione del lavoro, fino all’utilizzo di lavoro nero, i ritardi nel pagamento dei salari (anche 6 mesi!) e i licenziamenti.

La crisi oggi investe l’intero comparto e si scarica anche sui lavoratori italiani. Le responsabilità di questa situazione sono da ascrivere senz’altro ad amministratori locali cointeressati all’attività estrattiva che, in virtù del proprio potere economico e del ricatto occupazionale, si sono messi la democrazia sotto i piedi.

Gravi sono anche le responsabilità dei sindacati, che a partire dalla vertenza delle “trancette” del 1993 si sono sempre più allontanati dai lavoratori, brillando anch’essi per il comportamento antidemocratico.

Di fronte a tutto ciò la Provincia sta intervenendo con cospicui finanziamenti al distretto del porfido e alle operazioni di nuovo marketing per i prodotti del settore con soldi della collettività, mentre i profitti accumulati dalle aziende negli anni passati sono stati investiti in speculazioni edilizie, tenute in Toscana e acquisto di cave all’estero. Cosa ancora più grave, tutto ciò funziona come un paravento dietro il quale le grandi aziende del settore continuano la loro strenua concorrenza interna, condotta attraverso le imprese artigiane da loro più o meno controllate.

Di fronte a tutto ciò riteniamo vi siano due proposte che i lavoratori e le comunità locali dovrebbero valutare. La prima consiste in un contratto di solidarietà che riguardi l’intero settore e porti all’eliminazione del cottimo, tutelando i posti di lavoro e parificando le condizioni degli operai siano essi dipendenti delle aziende industriali o artigiane. La seconda riguarda il vincolo per chi ha in concessione un lotto di escavazione a farsi carico direttamente dell’intera filiera produttiva. Adottando nel contempo canoni più equi e un’attività estrattiva meno sprecona e distruttiva.

Ma tali obiettivi sono raggiungibili solo respingendo ogni tentativo di divisione tra lavoratori italiani ed extracomunitari, costruendo unità tra chi all’interno delle comunità locali ha realmente a cuore la tutela dei beni comuni (esemplare in proposito la battaglia fin qui condotta dall’ASUC di Tressilla) ed i lavoratori che devono ritrovare il coraggio di alzare la testa per difendere i propri diritti e la propria dignità.

Walter Ferrari e Kamber Mazlami portavoce del Comitato Dignità

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