Bob and the Apple
Bravi senza un’etichetta
Non sarà stato il loro concerto più affollato, ma sicuramente l’appuntamento con i Bob and the Apple venerdì 15 gennaio al Centro Musica avrà un posto d’onore nell’album dei ricordi della band trentina, in mezzo a qualche altro centinaio di date annoverate in cinque anni di attività. Sul palco, allestito per l’occasione con le lampade e i fondali della loro psichedelica sala prove, gli Apples hanno presentato gli undici brani che compongono il loro primo disco ufficiale “Rouge Squadron”, autoprodotto: colpisce, all’interno del libretto molto curato, l’assenza totale di loghi o etichette. Riflesso anche del loro stile musicale.
Ad aprire il concerto sono le note sfuggenti di “Ukulele”, ballata melodica costruita su sequenze di accordi mai scontate, marchio di fabbrica della band che ha raggiunto una maturità artistica che sembra non tenere conto della loro età media, attorno ai vent’anni. Canzoni come “Padre Patlic” o “Giardino Zell” sono veri e propri dipinti musicali, che difficilmente possono essere etichettati semplicemente come cantautorato rock, perché “certe convinzioni tramontano all’alba dei colori”, come cantano in “Sputacchiera reale”, e così, forse, anche le etichette.
Lontani da testi intimistici e puramente emozionali, i Bob and the Apple raccontano storie attraverso frammenti apparentemente senza logica, lasciando all’ascoltatore il piacere di ricomporre lo specchio. Storie di disillusione e di uomini che si rifugiano sugli alberi guardando “i pazzi laggiù”, e perdendo le foglie, naturalmente. Ritratti impressionistici, come quello di “Mary Jane” che “mangia tonno e fa autostop” credendosi, forse, una rockstar.
I suoni procedono per pennellate sfuggenti, anche grazie all’uso sapiente e misurato dell’effettistica, creando un effetto di incompiutezza e di sospensione della melodia, così come le parti ritmiche che spesso irrompono nei momenti di passaggio da un tema all’altro per poi svanire. L’impronta, nella maggior parte dei brani, resta comunque molto melodica, né pop né alternative ma semplicemente molto ispirata.
Due chitarre, un basso e una batteria che sembrano giocare “a chi evapora di più”. Sopra a questo tappeto volante di suoni viaggia una voce molto naturale, anche messa alla prova di testi impegnativi, quasi scioglilingua come “Giudice”, unico pezzo di matrice decisamente rock dell’album. L’originalità delle composizioni va di pari passo con la scelta coraggiosa dell’autoproduzione, in cui i quattro credono molto, promuovendo il disco su Internet oltre che, naturalmente, con un’intensa attività live.