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Come dire?

Personalmente, quando parlando non mi viene la parola giusta o non ricordo più quello che voglio dire (il progredire dell’età in questo non aiuta...), mi azzittisco per il tempo necessario a ripigliare il filo; altri, ritenendo in questo modo di meglio intrattenere l’uditorio, danno luogo a raffiche di mugolii gutturali, difficili da rendere graficamente (potremmo tentare con un ehhhhhh).

C’è chi, più esplicitamente, confessa la propria difficoltà e infila nel discorso un come dire, un diciamo, e simili. Metodo accettabile, a condizione che la zeppa non si ripresenti continuamente a scandire il discorso, a mo’ di basso continuo in un concerto barocco. Ne è maestro riconosciuto il buon Massimo D’Alema, che per di più sottolinea l’artificiosità dell’operazione pronunciando disciamo.

Meno onestamente, qualcuno cerca di prendere tempo senza volerlo confessare, infilando qua e là espressioni di vario genere che poco o nulla hanno a che fare col senso della frase. Senti dire: “Praticamente sono tornato a casa”. Perché, in teoria dove sei rimasto? Grazie a questi abusi, parole come praticamente e chiaramente (le più utilizzate in questa funzione distorta) sono state in buona parte svuotate del loro significato originario.

Rientra solo parzialmente in questo ambito il caso stuzzicante e molto particolare di giustamente, adoperato - soprattutto da persone poco scolarizzate - sia per tappare un buco, sia soprattutto per sottolineare la realtà di quanto immediatamente dopo si intende dire. Mi spiego con un esempio degno di rimanere negli annali del giornalismo televisivo. Intervistato da un cronista, un parricida, che ammetteva il proprio crimine ma voleva almeno in parte giustificarlo, così spiegava: “Giustamente ho ammazzato a papà (traduzione: “È ben vero che ho ammazzato mio padre”), ma lui...” e seguiva la lista dei torti ricevuti dal defunto genitore.