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Un altro continente

“Negli ospedali psichiatrici di Ucraina e Moldavia si parla italiano.” Questa frase, nel recente articolo di Tòs Sindrome d’Italia, mi è risuonata a lungo nella testa, aprendo una velux nel lobo frontale. Siamo noi italiani che facciamo impazzire le badanti? America e manicomio insieme? Un’accusa pesante e tanta voglia di intervenire, dire la mia versione di assistita, anticipando il “trauma da badante” che troveremo nei prossimi manuali di psicologia.

Come referenze ho un articolo scritto per QT nel 2007, Il volo di Natascia dove, con i miei soliti toni sinceri, tesso l’elogio di queste donne dell’est, costrette a lasciare la famiglia per assistere i nostri anziani, trovando la resistenza degli italiani e molti pregiudizi. Il mio contatto si limitava a qualche ora alla settimana per stirare e l’approccio era positivo, non avrei pensato di dovermi ricredere nel giro di pochi anni!

Quando subisco il crollo fisico a fine 2007, sono costretta a cercare una badante. Ti senti subito molto più grave quando cerchi una badante, entità sconosciuta già nel nome che è fastidioso, umiliante per ambo le parti. Chi sarà quel genio che ha coniato il termine? Interverrà addirittura l’Accademia della Crusca per decretare l’utilizzo del termine badante: la parola indica persona, nella maggior parte dei casi immigrata, che si occupa di anziani o disabili soprattutto presso privati.

Nell’imminenza delle dimissioni dall’ospedale inizia allora un andirivieni di diffidenti donne dell’est che indagano, fiutandomi sospettose. “Troppo giovane, troppo presente, dotata di capacità di critica, difficile da manipolare. Vegetariana poi!” Con queste astute supposizioni molte si ritirano. Quella che accetta è di una bruttezza imbarazzante, un vistoso incisivo d’argento che calamita lo sguardo. Ma poi non si presenterà il giorno stabilito per andare da un’anziana più vicina a casa sua. Assaggerò così l’affidabilità di queste persone che, per un euro in più, un’ora in meno, uno sguardo meno attento, se ne vanno senza pensarci.

La seconda durerà otto mesi, i primi due, obtorto collo, di forzata convivenza, in attesa di riprendermi e da lì in poi terrò solo un aiuto per mezza giornata. La terza un vero angelo, tanto da non sembrare umana. Troppo buona, disponibile, pronta ad anticipare i miei bisogni, paziente, affettuosa. Era figlia, amica, sorella. Troppo dicevo, infatti non ho tenuto la dovuta distanza dandole troppa confidenza. Nel frattempo era diventata regolare, la musica in casa cambiò, non le andava più bene nulla e se ne andò dimostrando un rancore sproporzionato. A mie spese ho imparato che se sei sola e hai una guerra nel tuo corpo, non puoi fidarti di mercenari sperando che lo facciano per affetto.

Nulla da dire su come puliscono, stirano e cucinano perché sono abituate fin da bambine a fare le donne di casa. Ma hanno avuto padri, fratelli e mariti che non lavorano, bevono e picchiano, che le hanno incattivite, rese sospettose, costringendole a emigrare per sfamare i figli. Il loro vissuto purtroppo è questo, non si possono che giustificare. Così molte sono arroganti, piene di rancore per gli italiani che giudicano ricchi e spreconi e che, appena possono, deridono. Mi hanno scaricato tutti i loro problemi economici sulle spalle, le loro ansie, raccontando storie inverosimili alle quali credi attonita. All’inizio è primario il bisogno di lavorare, poi del permesso di soggiorno, poi il consumismo e il nostro modo di vivere fanno loro gola e ricalcano il peggio delle nostre abitudini. Non sono sincere, si capisce che recitano. Hanno tanta miseria alle spalle, un clima rigido che non favorisce la comunicazione ma il pettegolezzo. Infatti, ti ritrovi inserita in quel gineceo dove nessuna brilla per tatto, dove sparlano protette dalla loro lingua, anche di te che ignara mangi un gelato!

In totale sei donne dell’est, moldave e rumene, che conoscendosi fra loro mi passavano da una all’altra o come spauracchio o come tontolona di turno. Unico onore riconosciuto: “Lei paga!” Mi hanno fatto perdere ogni poesia e venire tanta voglia di cambiare, non nazione… addirittura continente!

In estate la svolta: con molta determinazione evito i loro consigli su altre compaesane e trovo una bravissima signora filippina sempre sorridente, paziente, sveglia, affidabile. Scopro che al di là del mondo, in quell’oriente magico, c’è un popolo dignitoso che la vita difficile non ha indurito, non ne ha spento il sorriso che ritrovi intatto nei loro bambini. La Famiglia Felice, così la chiamo, ha ricucito quelle sei ferite da kalashnikov ridandomi la dignità di donna, ammalata sì ma non sfruttata.