Santorossi: “EgoLogo”
Personale di Santorossi, nella tradizionale mostra estiva di sculture e istallazioni di grandi dimensioni ambientate a Castel Pergine. Sull'ipertrofia dell'ego; ma con risultati superficiali.
Per essere una mostra che promette fin dal titolo, "EgoLogo", un certo impatto psicologico, e se si vuole antropologico, la personale di Santorossi in corso al Castello di Pergine (a cura di Franco Batacchi, fino al 9 novembre) sembra ben lontana dal costituire una vera provocazione. Se l’idea era di puntare il dito contro i modelli narcisistici dominanti e dire quanto sia difficile nella società di oggi il percorso dell’identità personale, allora i mezzi usati dall’artista trevisano (il cui vero nome è Claudio Conzon) portano a risultati che non convincono.
Prendiamo, ad esempio, tra i diversi cicli di opere proposti, quello che appare come il più caratterizzato: i grandi teli serigrafati che ricoprono alcuni muri esterni del castello. L’elaborazione in tre colori (nero, rosso, bianco) di figure o volti, nei quali talvolta riconosciamo una star, presentata come una maschera dietro la quale solo gli occhi rivelano un barlume di identità personale, può costituire un pensiero critico (la mascheratura si sovrappone alla persona come la copertura dipinta alla sostanza delle mura).
Al tempo stesso, però, il nome in grandi caratteri dell’artista (nome d’arte: anch’esso un travestimento) continuamente e ossessivamente ripetuto e per così dire declinato in varie forme tipiche della promozione commerciale (Santorossi-Light, -Under, -Night, -eccetera) produce un effetto ambiguo, in cui non si è più certi dell’intento parodistico o polemico. E sorge il serio dubbio di una valenza prevalentemente auto-promozionale.
D’altra parte, qual è il rapporto dell’opera con l’ambiente, con questo ambiente? A tanti anni dalla provocazione di un artista come Christo, che si mise ad impacchettare letteralmente i monumenti e gli edifici storici, col gesto inaudito di quella che gli psicologi definirebbero una indiscutibile "ipertrofia dell’ego", questi teli ordinatamente disposti sulle mura appaiono nonostante le dimensioni ragguardevoli un gesto inevitabilmente trattenuto.
Non antagonistico ma, invece, estraneo al manufatto e alle sue possibili suggestioni, però anche in questo meno radicale di certe pubblicità che talvolta si vedono attorno a grandi cantieri.
Numerose altre opere che incontriamo nei percorsi fuori e dentro il castello appartengono a cicli diversi. Alcuni dei quali non risultano in particolare sintonia col filo centrale del discorso, e prendono inoltre diverse direzioni stilistiche, come ad esempio i "boschetti" di gusto geometrizzante, i motivi decorativi reiterati lungo il muro esterno, i giochi di luce e trasparenza, belli peraltro, che troviamo nell’avvolto del carcere e nella cappella, i "fiori di pietra" che ricordano certe opere di Arte Sella, ma anche le macchine da scrivere immerse nel bianco in puro stile pop art. A meno che non si voglia sostenere che, per essere appartenuto all’autore, un oggetto è di per sé significativo in un discorso sull’ego, la Fiat 500 eretta a monumento di se stessa all’inizio del percorso ("La mia prima auto") è un altro esempio di opera che non sembra aggiungere molto allo svolgimento del tema.
Vi sono opere che fanno leva su altre esperienze autobiografiche, come i sedili e i lettini in metallo che si riferiscono esplicitamente all’altra professione dell’autore, quella di psicoterapeuta, e rimangono come setting disabitati di terapie di gruppo, ipoteticamente occupabili dai visitatori, in cui, forse in chiave ironica, anche il colore evidenzia la centralità dello psicologo. Riferimenti ancor più chiaramente auto-ironici incontriamo in talune installazioni tra il sacro e il macabro ("Stinco di Santo" mette in scena su un altare fiammeggiante un osso tale e quale), fino alla "Sepoltura dell’Ego", una tomba che reca anche alcune date importanti nel percorso personale dell’autore. Qui vediamo una tendenza a lavorare in larga misura sul gioco di parole ("Soprattutto sotto niente" è l’epigrafe della sepoltura), che riemerge anche nella lettura parodistica, più che freudiana, di figure fiabesche quali Cappuccetto Rosso o il Principe Ranocchio.
Alla fine di questa pluralità di percorsi, il discorso sull’ego portato qui da un artista che dovrebbe intendersene proprio perché anche psicologo, resta curiosamente e si direbbe programmaticamente in superficie, orfano di più misteriosi apporti simbolici, e soprattutto emotivi, che qualche volta l’arte è in grado di trasmetterci meglio di una seduta psicoanalitica.