Seguendo i percorsi di un “gregario della Storia”
A 60 anni dalla morte di Antonio Piscel.
“I socialisti trentini non possono tacere la parola del loro compianto, anche se Antonio Piscel [...] da anni non era più al loro fianco. [...] sulla sua tomba idealmente si inchinano anche le nostre bandiere".
ICosì "L’Internazionale", periodico socialista trentino, ricordava Antonio Piscel, spentosi 76enne il 20 settembre 1947; roveretano, avvocato di professione, egli era stato senza dubbio, con Cesare Battisti, il più attivo artefice del Partito socialista trentino.
Da quei tempi, molte cose, per Piscel, erano cambiate. Ed è negli anni della Grande Guerra che si devono ricercare gli snodi più importanti della sua biografia. Vi fu la pesantissima disillusione rispetto alla sostanziale resa del Partito Socialista austriaco, e più in generale al disfacimento della Seconda Internazionale. Venne poi, colpo durissimo ed irreparabile, la scomparsa della moglie, l’amatissima Enrica Sant’Ambrogio, morta a Verona il 1° aprile del 1915. Quindi l’impiccagione dell’amico e compagno di sempre, Cesare Battisti, con tutto quello che ne seguì, anche in termini di disagio personale, vorremmo dire psicologico; ciò che è provato peraltro da una testimonianza dello psicanalista Cesare Musatti, amico di famiglia.
Piscel, al centro di molte aspettative di rinascita nel biennio 1916-1917, finì con l’essere relegato (in parte autorelegato) ai margini della vita politica, quasi un impaccio d’altri tempi inadeguato per quelli nuovi. Sempre più schiacciato, poi, dalla memoria ingombrante di Cesare Battisti. Memoria alla cui costruzione gli era in un certo senso vietato partecipare: a differenza, ad esempio, di Augusto Avancini, forse più discordante con Battisti nelle scelte ultime, ma più affettuosamente "subalterno" e potenzialmente meno "invasivo" nel momento della restituzione postuma dell’immagine del "martire". Anche nell’edizione, anno 1923, delle opere battistiane, Piscel non ebbe ruolo. Ricordava il figlio Giuliano: "Darei per certo che le due [Ernesta e Livia] non ebbero ad interpellare mai mio padre né sulla impostazione generale né sulle scelte, nemmeno per particolari secondari nella loro preziosa redazione". E ancora: "Solo una volta, non ricordo quando, la Livietta mi chiese notizie relative all’eventuale esistenza di un archivio di mio padre".
E’ forse proprio per questo che si è formata, attorno a Piscel, una serie di rivoli costituiti da memorie "nascoste", parziali, laterali: memorie tramandate, rivedute, sempre pudicamente.
Già lo stesso Antonio Piscel tendeva alla notazione autobiografica, fosse essa un ricordo dei suoi soggiorni universitari, o fossero le rievocazioni, i primi maggi, tutte occasioni per fare un punto della situazione fortemente "storicizzato". Senza scordare la "memoria famigliare" posta, già nel 1893, ad introduzione della silloge di scritti paterni.
Ma a ciò si aggiunsero poi le memorie dei figli: di Giuliano (quella lunga lettera a Livia poi pubblicata da "Materiali di lavoro"), di Diego, di Lilia. Ancora nel 1999 la figlia di Giuliano, la storica Enrica Collotti Pischel, raccoglieva e selezionava alcuni di questi ricordi, tessendone la trama attorno al fulcro costituito dalla casa di Serrada (la "Villa Piscel"). Poi, memorie ancora più "a lato", come quelle lasciate da Cesare Musatti.
Più interessante di tutte sarebbe stata quella sorta di autobiografia, rimasta purtroppo allo stato di progetto, nella quale Antonio Piscel si impegnò verso la fine della sua esistenza, alla metà degli anni ’40, quando da vari anni aveva abbracciato la fede cattolica.
Il lavoro, assai significativamente, doveva chiamarsi "Ricordanze, riflessioni, confessioni di un gregario della storia"; rimangono solo i titoli scelti per i capitoli, che scandiscono cronologicamente la sua biografia, oltra a
frammenti del primo e dell’ultimo. Ad incominciare, "Per salire a galla": era riservato alla sua fede ritrovata, al suo percorso salvifico, ritorno del figliuol prodigo alla casa del padre, e naturalmente era posto al di sopra e al di fuori della storia e delle sue scansioni cronologiche. Quindi, "Nel piccolo mondo antico irredento (1875-1885)", e "Alimentando la fiamma (1885-1894)", quest’ultimo, pensiamo, incentrato sulla maturazione del suo sentimento nazionale: sono gli anni delle società e dei clubs mazziniani fra studenti ginnasiali, ricordati, ancora una volta, in una memoria "minore" pisceliana, depositata al Museo del Risorgimento. Subito dopo avvengono i cambiamenti, e segneranno tutta la sua esistenza: la fondazione, con Giovanni Lorenzoni, della Società degli studenti trentini, e (partecipi anche Avancini e Peterlongo, quindi Battisti) del Partito Socialista trentino. Nell’occasione della laurea, conseguita a Graz nel 1895, gli amici gli fanno dono, significativamente, di una copia del "Capitale" di Karl Marx.
Tutto il frenetico periodo seguente, che sino alla prima guerra mondiale lo vede protagonista della vita politica trentina, viene posto da Piscel sotto un titolo interessante: "Vent’anni nella II internazionale (1894-1914)". Attenzione: non nel Partito Socialista trentino, e nemmeno nel Partito Socialista austriaco. Era forte in Piscel il senso di appartenenza a quella Associazione socialista internazionale sorta, auspice Engels, nel 1889, e d’altra parte era proprio lui che teneva e tesseva i rapporti con i socialisti sia italiani che austriaci.
Sappiamo che egli a Roma fu allievo di Antonio Labriola. Quindi, verso il 1895, conobbe a Milano Filippo Turati, ed entrò in dimestichezza epistolare con Camillo Prampolini. Fu poi consonante soprattutto con Leonida Bissolati. Piscel, riformista senz’altro, era naturalmente più in sintonia con essi, ma ciò non gli impedì di essere amicissimo del socialista Elia Musatti, allora su posizioni di sinistra; di conquistare un eterodosso come Gaetano Salvemini, che riferiva alla Bittanti nel 1899: "Vidi a Milano Piscel; ne fui incantato; è uno degli uomini più simpatici, che io abbia mai visto, e sento per lui un vero trasporto"; o, ancora, di stringere un particolare rapporto con l’allora ultra-rivoluzionario Benito Mussolini, che nel 1910 scriveva sul milanese "La Conquista": "Il Piscel mi fu, più che compagno, fratello".
Poi vi erano anche, appunto, gli austriaci. Tanto che, a tempi assai mutati, recensendo il volume biografico su Cesare Battisti della Hazon De Saint-Firmin, puntualizzava, a proposito dell’affermazione dell’autrice secondo cui i deputati socialisti austriaci e tedeschi non fecero mai mancare i loro voti ai progetti d’armamento: "Ciò non corrisponde al vero, sopra tutto per l’Austria. Se Cesare Battisti potesse narrare lui la storia di quel tempo, sono convinto, anzi, che non mancherebbe di far notare come sia stato un deputato socialista tedesco, l’on. Ellenbogen, il suo precursore nel Parlamento di Vienna, nella difesa dei diritti degli italiani in Austria e contro i fasti del militarismo austriaco nel nostro paese; ed in tale missione questi sia stato più pronto e più energico degli stessi deputati italiani, clericali e liberali, a Vienna". Era il 1929.
Ma andiamo avanti. Quarto capitolo: "Con i volontari trentini nella I guerra mondiale (1914-1917)". In una lettera, ancora inedita, al leader austriaco Victor Adler dell’ottobre 1914, Piscel scriveva: "Sanguina il cuore ad assistere a questo contrasto, perfin sanguinoso di attività in uomini che fin ieri erano uniti da uno stesso ideale e si sentivano compagni solidali. Unico conforto in tale doloroso spettacolo può essere il pensiero che in questa immane catastrofe sarà condannato a crollare quanto rappresenta oramai istituzioni invecchiate ed in contrasto con i bisogni e con le idee della grande parte d’umanità che vuole lavorare per vivere e progredire in pace".
Pensieri tormentati, come tormentato fu, almeno inizialmente, il suo interventismo, più tardivo, più "imposto dalla situazione" rispetto a quello di Battisti. Ma vi fu. E costituì in un certo senso un punto di non ritorno. Interventismo spiegabile, e ciò è sempre doveroso fare tenendo conto della complessità dell’ambiente e delle biografie, sul piano storico; inaccettabile su quello teoretico, visto anche tutto il dibattito che sulla natura dell’imperialismo vi era stato negli anni precedenti all’interno del mondo socialista.
Di questo punto di vista egli si fece portavoce anche in quel breve ma denso periodo (da lui intitolato "Fra le quinte della diplomazia di guerra (1917-1919)") durante il quale, nell’ambito di un importante congresso socialista internazionale che si sarebbe dovuto tenere a Stoccolma, preparò un memorandum a sostegno del programma massimo irredentista, cercando di squalificare il povero Valentino Pittoni, leader dei socialisti triestini fieramente internazionalista: notiamo che proprio negli stessi mesi Augusto Avancini era, a Vienna, segretario di Pittoni. E ricordiamo che il Pittoni morì poi nella capitale austriaca, da fuoriuscito, nel 1933. Fu, quel memoriale, assai criticato successivamente dal figlio Giuliano, che lo definiva un "brutto pasticcio (strumento di propaganda bellica)", per cui il padre "non aveva alcuna legittimazione". Ma è comunque un documento importante, e anche indicativo del ruolo che il Piscel rivestiva: ricordiamo che egli rimase a Stoccolma come "osservatore", in contatto direttamente con Bissolati.
E con Bissolati la consonanza vi fu anche nel periodo successivo: alla sua morte il Piscel lo ricordò come un maestro. Siamo già nel difficile e convulso periodo del dopoguerra ("Nel travaglio dopo la vittoria (1919-1922)"): difficile soprattutto per Piscel, che dopo una iniziale partecipazione alla ricostituzione del partito, abbandona la scena: i due discorsi del primo maggio 1919, l’uno del Piscel e l’altro di Mario Belluta, mostravano già le stridenti contraddizioni in cui si dibatteva il socialismo trentino; era difficile per esso, in quel momento, trovare una guida nell’antico leader.
Pur con qualche parziale distinguo (Silvio Flor), Battisti era invece rivendicato come "socialista".
Ma non era più il Cesare Battisti in carne ed ossa, era un mito già consolidato e conteso: un mito ormai troppo "intangibile", che andava accettato, almeno esteriormente. Non ci pare azzardato dire che l’interventista Piscel pagò, in un certo senso, lo scotto anche in vece dell’interventista Battisti. Piscel non ebbe però indugi sul fascismo e sul nazionalismo montante: dopo il noto discorso di Bissolati dell’11 gennaio 1919 contro l’inclusione dell’Alto Adige nello stato italiano, "Il Giornale d’Italia" denunciò esplicitamente la parte di Antonio Piscel nella vicenda. Ed egli, nel 1921, votava per la lista socialista, sentendosi in dovere di rendere pubblica la sua scelta.
Dopo, inizia il suo sempre più silenzioso ritiro, proprio in concomitanza con l’avvento del fascismo. A questo periodo egli voleva dedicare due capitoli: "Fasti e nefasti del decennio fascista (1922-1932)" e "L’ultimo volo dell’aquila romana (1933-1943)". E qui si colloca la sua adesione a quell’ "impero" per cui svolse anche attività di propaganda. Forse in parte pesava la distorsione, che fu di ampi settori revisionisti della Seconda Internazionale, del mito progressista della missione civilizzatrice del socialismo. Ma crediamo che a quel punto operassero anche i cascami di un nazionalismo non più ben dominato: nazionalismo che si riverbera sui radi scritti del periodo, con accenni all’ "Italia di oggi che esce trionfante da un grande sforzo vittorioso per la conquista del suo Impero Affricano" (1938).
Dell’ultimo capitolo impostato, "Giorno per giorno in gran tempesta (1943-1944)", rimane qualche nota, quasi diaristica a questo punto: sulla guerra, sui bombardamenti soprattutto. E sui morti: "Qualcuno parla di tre morti; altri di quattro; con le solite esagerazioni, qualcuno li fa risalire ad oltre la decina. Chi dice fossero lavoratori, gente del nostro paese, ingaggiata forzosamente dalla organizzazione del lavoro tedesco della Todt; altri dicono che erano soldati tedeschi. Che cosa importa la differenza della lingua che parlavano? Non erano tutti figli di mamma?" (5 nov. 1944).
A quel momento egli aveva già abbracciata la fede cattolica, stimolato dai dialoghi con monsignor Enrico Montalbetti: vi era stata l’abiura pubblica del luglio 1938 e, nel 1942, l’abito da terziario francescano.
Intanto Piscel scrive, scrive moltissimo. E lascia tracce, appunti. Un grosso volume dattiloscritto in forma di dialogo fra un dottore e un avvocato (il Piscel del prima ed il Piscel del dopo?). E ancora, queste annotazioni: "Quel rosso della nostra bandiera, era o per lo meno non voleva essere il rosso del ferro arroventato dell’odio dei poveri contro i ricchi. Mi basti ricordare i nomi di Edmondo De Amicis, di Filippo Turati, di Leonida Bissolati, di Camillo Prampolini. Nella nostra propaganda orale e nelle intitolazioni dei nostri poveri fogli settimanali il preferito era il motto di quest’ultimo: ‘la miseria non è frutto della malvagità degli abienti, ma è conseguenza inevitabile della organizzazione attuale della produzione, e perciò è contro questo sistema che dobbiamo serenamente lottare’".
Anche quel suo tardo accostamento alla fede va quindi, certo non senza rilevarne le soluzioni di continuità, ricondotto e riannodato all’intera sua vicenda, politica ed umana.
Antonio Piscel si può certo definire, in un certo senso, un intellettuale. Ma non fu, la sua, una conversione da intellettuale, e forse fu questo a creare più d’un imbarazzo. Egli ancora una volta si era ritagliato il suo ruolo: "gregario" non più della Storia, ma della fede.