“300”
Militarista, grondante di retorica patriottarda e fascistoide, il film-fumetto su Leonida alle Termopili può essere letto come una chiara allegoria politica: pro interventismo americano. Se si passa sopra a tutto questo, e al compiacimento verso una violenza continuamente esibita, si può trovare una narrazione tesa ed incalzante, in un prodotto ben confezionato.
Finora il regista Zack Snyder era famoso per una sola cosa: l’idea geniale di far correre veloci gli zombie. Sino al suo "L’alba dei morti viventi", gli zombi avevano una tipica andatura lentissima, che oggettivamente regalava agli umani un grosso vantaggio in caso di attacco. Dopo aver realizzato un film all’interno di un filone classico dell’horror, Snyder (per dare l’idea di quanto strani siano i percorsi produttivi e commerciali di Hollywood), ha portato sullo schermo una della battaglie più famose dell’antichità classica: quella delle Termopili, dove 300 spartani, comandati dal re Leonida, riescono ad arrestare l’avanzata del gigantesco esercito persiano di Serse.
La nostra lettura di "300" è indecisa tra due punti di vista: tra il considerarlo solo "in sé", riflettendo su come viene raffigurato lo scontro campale tra spartani e persiani; e il vederlo come una grande allegoria delle campagne militari americane, in particolare nel Medio Oriente. Va detto, subito, che da parte dei realizzatori di "300" non c’è l’ambizione di fare un discorso storico o filologico. Non solo: non c’è nemmeno l’intenzione di affrontare la tematica da un punto di vista mitologico vecchio stile, come nei film a peplum. Il soggetto da cui è tratto il film è una graphic novel di Frank Miller. Che la vicenda sia inquadrata da questo un punto di vista lo si percepisce in ogni sequenza. La storia è guidata da una voce off, le coreografie sono disegnate tutte in digitale, i momenti di scontro caricati di quel pathos eroico cui si demanda il compito di tenere incollati gli occhi alle vignette. Il racconto risente in tutto e per tutto delle sue radici, che lo portano a rinunciare a una ricostruzione naturalistica per esaltare le componenti che fanno graphic novel. Ci troviamo così di fronte ad aggiunte puramente fantasy: nell’esercito di Serse vengono schierati rinoceronti cavalcabili, mammut, uomini giganti da tenere alla catena fino al momento del combattimento.
Anche dalla parte degli spartani ci sarebbe una specie di freak, un gobbo deforme che somiglia a Gollum. Purtroppo però Leonida, non volendo punti deboli, non lo ammette in battaglia. Il mostro, di conseguenza, passa dall’altra parte e rivela ai persiani il trucco per aggirare i greci. Viene da pensare che sarebbe stato meglio buttarlo giù appena nato dalla rupe Tarpea, il destino al quale era casualmente sfuggito.
L’inizio del film ci mostra infatti l’educazione spietatamente militare destinata ai figli di Sparta, "forgiati secondo le regole di una società guerriera": si insiste con i bambini su parole come "onore", "rispetto", "Patria", sulla morte nel campo di battaglia come la gloria più grande che la vita può offrire. Società organizzate in modo alternativo vengono abbondantemente sbeffeggiate: degli ateniesi si dice che sono "filosofi effeminati".
Questo stesso pregiudizio anti-intellettuale lo si ritrova nella figura di Terone, il consigliere politico di Leonida, che si rivela un personaggio infido, un nemico interno. Il pensiero e l’azione sono infatti categorie da contrapporre: c’è chi è capace di fare e chi, invece, parla. La politica è solo una resistenza da superare prima di passare all’azione. "La libertà non viene regalata, e esige il più alto dei tributi, il tributo del sangue". La guerra non è vista come una questione politica da discutere, ma come un’estrema esperienza umana. Va affrontata, e basta.
Se si è disposti a farsi andar bene tali presupposti bellicosi di costruzione visiva e ideologica, la narrazione scorre via incalzante e tesa. Ma incombe l’altra lettura, quella allegorica, che spinge le componenti militaresche in una direzione che risulta funzionale alla politica estera americana di oggi. Quasi un suo supplemento immaginario.
A dire il vero, volevamo evitare di concentrarci sulla politica. Come per la lettera rubata di Edgar Allan Poe, questa lettura ci sembrava talmente evidente che veniva voglia di lasciarsela passare indifferente sotto il naso. E’ abbastanza ovvio, infatti, che gli spartani, con cui ci identifichiamo, sono gli americani. Questi guerrieri che vogliono solo difendere la loro patria sono attaccati da un’orda che non a caso proviene dalle regioni della Persia. L’Iran, all’incirca.
A costringere, volenti o nolenti, all’interpretazione allegorica, è tuttavia il film stesso. Anzi, un momento preciso della pellicola, quando uno dei comandanti spartani parla così dei suoi alleati, gli àrcadi. Di loro dice testualmente: "Sono dei coraggiosi dilettanti". In tempi come i nostri, è davvero immediato il collegamento con l’attualità delle alleanze degli Stati Uniti. Questo inciso sembra portar acqua al mulino di una malcelata certezza americana: alla fine dei conti, sugli alleati mica si può fare affidamento più di tanto. Quando si tratta di combattere, deve pensarci l’America per tutti. Gli altri sono, appunto, coraggiosi dilettanti.
L’allegoria politica, però, oltre un certo livello non regge più: nel film quelli motivati ad andare in battaglia siamo noi, mentre i mostruosi persiani bisogna frustarli, per farli avanzare. Sappiamo invece che l’ambito motivazionale è completamente rovesciato, se guardiamo gli spartani e i persiani di oggi, le prezzolate minoranze che gli USA mandano in guerra contro uomini che fanno della loro fede per la causa del martirio l’arma più forte.
Vedere, almeno sullo schermo, che noi siamo soldati spavaldi e coraggiosi può fornire forse a qualcuno qualche briciolo di consolazione.