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QT n. 3, 10 febbraio 2007 Monitor

Dal vostro infiltrato nella “Bohème”

L'opera di Puccini, co-prodotta dal Santa Chiara di Trento, recensita dal vostro critico nella doppia veste di spettatore e di comparsa.

Questa volta il reportage sarà speciale. Non sembrerebbe possibile raccontare l’opera da dentro e da fuori. Bisognerebbe essere ubiqui. Ebbene, per divertire i lettori abbiamo tentato l’impossibile. Ma, andiamo con ordine...

Sabato 27 gennaio il Teatro Sociale ha ospitato la Bohème di Puccini, opera tra le più amate dal pubblico. Difficile non commuoversi per l’attesa crudele inevitabile morte della povera Mimì, nella gelida soffitta abitata da Rodolfo e Marcello, e, sembra, anche da Schaunard e Colline (a proposito, un letto solo?), i quali con la generosa Musetta si fanno in quattro per rasserenare gli ultimi attimi della sfortunata giovane. Il regista Dino Gentili, nelle sue belle e appropriate ”Note di regia”, incluse nella brochure di presentazione dello spettacolo, spiega molto bene come l’opera pucciniana riassuma il destino umano, tra nascita e morte, attraverso il lungo viaggio dell’amore (l’amore per l’amore e quello per la vita); e come essa metta in scena un archetipo: la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta. Ma... che rischio quel secondo atto, con coro e comparse a occupare l’intera scena del non così spazioso Teatro Sociale! E con soli quattro giorni di prove... Eppure, da questo punto di vista almeno, tutto è filato liscio. Il pubblico non saprà mai se il cameriere che inciampa lo fa perché gli han detto di farlo, o perché non si è accorto dell’angolo non arrotondato di un elemento scenografico. Tutto sarà sembrato realistico, perché, malgrado l’evidente finzione, è all’insegna del realismo che Puccini, Illica e Giacosa costruiscono l’ambientazione della Bohème. E dunque, ”il vostro agente a Parigi”, seduto comodamente in un palco a fare il suo mestiere di critico teatrale, celata la divisa da cameriere sotto un maglione da uno-del-pubblico, ha seguito come un comune spettatore il primo atto, con quella “gelida manina” scaltramente riscaldata da Rodolfo, e quei reciproci birichini giochi di candele spente apposta per restare in un’intima oscurità.

La voce di Susanna Branchini (Mimì), possiamo garantirlo, è tonante da qualunque lato la si ascolti: provate a starle dietro, mentre servite Coca-Cola travestita da vino agli avventori-coristi del Café Momus, e sentirete le sue vibrazioni quasi come se vi trovaste davanti (provato anche questo) o nei pressi (idem). Insomma, anche voi vi chiedereste come fanno a sorridere seraficamente, seduti al suo fianco, Giancarlo Monsalve (Rodolfo, poeta), Mattia Nicolini (Schaunard, musicista), Francesco Palmieri (Colline, filosofo) e Enrico Marabelli (Marcello). Chiedetelo anche al godibile veterano Franco Federici, che con il suo doppio ruolo (Benoit-Alcindoro) ha saputo mantenere pulsante la vena comica del testo, e all’elegante e nitida Paola Antonucci (Musetta), ribelle ai vincoli affettivi quanto basta. Si vede che hanno potenti anche i timpani, oltre alle corde vocali.

Eccellenti tutti... da ogni lato, ed impeccabili nella recitazione. I coristi del Teatro Sociale (diretti da Luigi Azzolini), i graziosi piccini del Coro Voci Bianche ”C. Eccher” (diretti da Chiara Biondani), e le comparse, tra cui vari habitués dell’opera made-in-Trento, hanno reso vivace e, a giudicare dagli applausi, apprezzabile, la movimentata piazzata tra i vari innamorati-solisti, compreso il momento del piatto rotto da Musetta, i cui cocci il vostro inviato ha dovuto raccogliere, con sprezzo del reiterato pericolo di tagliarsi un dito (martirio regolarmente occorso durante le prove).

Al termine della piacevole baraonda, mentre il pubblico sciamava fuori dalla platea per l’intervallo, è stato facile riprendere le sembianze di un normale spettatore e recuperare la posizione, in tempo per l’inizio del terzo atto, ambientato in una deliziosa piazzetta innevata ricostruita da Damiano Pastoressa, felice ideatore e architetto della scenografia. Incisivo e potente il quartetto, con la sua ardita struttura di doppio duetto comico-romantico, toccante il finale con le promesse di “lasciarsi a primavera”, perché “soli d’inverno” non si può stare.

L’ultimo atto, di nuovo nella soffitta, è stato seguito da tutti con il cuore in gola: “Ma deve proprio morire, ‘sta povera ragazza, che, tra l’altro, canta così bene? Possibile che in cent’anni non si sia trovato un rimedio per salvarla?” Così, morettianamente, pensa lo spettatore, memore del Dottor Zivago visto in Palombella rossa. Ma Mimì deve morire, sta scritto. E allora le baruffe a cuscinate, i lazzi e le gag dei quattro amici artisti, che privi di combustibile per la stufa in quel modo riescono almeno a scaldarsi, vengono bruscamente interrotti dall’arrivo di Musetta e di Mimì, alla quale restano ormai ben pochi respiri.

L’Orchestra ”Gian Francesco Malipiero”, diretta dall’applaudito Giampaolo Bisanti, ha sostenuto adeguatamente il crescendo tragico dell’opera, contribuendo a spremere agli spettatori e soprattutto alle spettatrici, nella complice penombra della platea e dei palchi, più d’una lacrimuccia.Il lento finale, con quella lugubre fanfara, ha prolungato ancora per qualche attimo il magone del pubblico, il quale non attendeva altro che di poterlo interrompere con una lunga serie di applausi, durante i quali, ”magicamente”, il vostro inviato è salito tra i primi sul palco per riprendersi quelli un attimo prima elargiti ai solisti dal suo posto a sedere. Insomma, quasi ubiquo, al vostro servizio. E preparamoci all’Otello imminente.

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