“Scoop”
Come tutti gli ultimi lavori di Woody Allen: carino, vivace, gradevole. Ma manca il genio.
L’ora e mezza del film passa piacevolmente, ci si diverte. Ma poi, quando si accende la luce in sala, si fa fatica a trattenere una smorfia di delusione. Perché "Scoop", come tutti gli ultimi film di Woody Allen, è carino, ha buone trovate, una sceneggiatura vivace… Però manca di genio, quel genio che Allen era riuscito, per più di vent’anni, a infondere in ogni sua opera. Da un certo momento, nei primi anni Novanta, gli è successo qualcosa che l’ha come costretto ad alleggerire il suo cinema. Qualcosa che ha forse a che fare con la burrascosa fine del matrimonio con Mia Farrow e il simil-incesto con Soon-Yi; un po’ di esigenze alimentari, quindi, e un po’ di mancanza di voglia o ispirazione.
"Scoop" racconta la storia di una giornalista principiante (Scarlett Johansson) che riceve una soffiata dallo spirito di un reporter appena morto: un ricco lord sembrerebbe essere un serial killer. Coinvolge nelle ricerche un prestigiatore, di nome Splendini, interpretato da Woody Allen.
Il film scorre via brillante, tra trovate e battute. Ne trascriviamo tre: "Emozione nella mia vita è una cena senza bruciore di stomaco"; "Come nascita sono di confessione ebraica ma poi mi sono convertito al narcisismo"; e poi, quando con Scarlett parlano di come fare a rimanere magri, Allen dice che non fa sport: "L’ansia è la mia aerobica".
Allen duetta bene con la sua controparte femminile, una Scarlett Johansson che nel film viene imbruttita da un paio di occhiali color oro e un abbigliamento dimesso. Woody, poi, è sempre lui: interpreta il suo solito personaggio, l’ipocondriaco imbranato, il logorroico sarcastico e ritroso.
Ma questo è un vivere di rendita. Allen costruisce un film che sembra un patchwork dei suoi cliché narrativi. Si colgono riferimenti non solo a "Misterioso omicidio a Manhattan" (1993) ma persino all’ultimo "Matchpoint" (2005). Questa non è nemmeno auto-citazione. È semplicemente penuria di idee.
Bisogna purtroppo aggiungere che gli ultimi film di Allen sono carenti anche dal punto di vista stilistico. Nei dialoghi, la regia si limita spesso al minimo sindacale, alternando i primi piani delle due persone che parlano. Dispiace, perché le pellicole di Woody Allen acquistavano forza e bellezza dalla profonda cura formale nelle inquadrature, nelle soluzioni di ripresa, nell’illuminazione. Basta ricordare la fotografia di Gordon Willis in "Manhattan" (1979); quella di Sven Nykvist per "Crimini e misfatti" (1989); o quella del grande Carlo Di Palma, che ha lavorato con Allen dal 1986 ("Hannah e le sue sorelle") al 1997 ("Harry a pezzi"). Forse è anche per queste insufficienze che film come "Anything Else" (2003) o "Celebrity" (2004) non restano nella memoria.
Il tempo passa per tutti, anche per i grandi artisti. C’è chi scrive il proprio capolavoro a vent’anni e poi è tutto uno scollinare. E c’è chi, con gli anni, perde magari in intuizione ma guadagna in saggezza e confidenza con il proprio mezzo artistico. La figura di Bob Dylan è in questo senso istruttiva. In un’intervista recente alla CBS parla del se stesso degli anni Sessanta, e della sua furia creativa, con un’infinita distanza malinconica. Arriva a citare i versi di una propria canzone, a declamarla meravigliato, stupendosene come se ad averla scritta fosse stata un’altra persona. Nella sua autobiografia racconta di quando, nel 1989, stava incidendo l’album "Oh Mercy" e il produttore, Daniel Lanois, gli chiedeva di comporre canzoni come quelle più vecchie. "Avrei voluto essere capace - scrive Bob Dylan - di dargli le canzoni che voleva lui, ma quelle canzoni erano state scritte in circostanze differenti e le circostanze non si ripetono mai. Non esattamente. Non avrei potuto raggiungere quel tipo di canzoni, né per lui né per nessun altro. Per poterlo fare, bisogna avere potere e dominio sugli spiriti. Una volta l’avevo fatto, e una volta era abbastanza".
Di Dylan è uscito adesso un disco nuovo. Molto bello, dicono tutti. Vale la pena andare a cercare su Youtube il videoclip di "When the Deal Goes Down", che ha per protagonista proprio Scarlett Johansson. Ma in effetti tutto ciò c’entra e non c’entra con "Scoop". Quello che intendiamo dire è che, quando uno è un genio, lo rimane. Anche se Woody Allen ha già fatto tutto il necessario per restare nella storia del cinema, aspettiamo che abbia la voglia e la tranquillità per dare nuove forme ai contenuti della sua intelligenza. Basta e avanza un colpo d’ala a far venire alla luce le tracce di un enorme talento creativo. Ad esempio, quando in "Harry a pezzi" (1997) ci presenta un personaggio, interpretato da Robin Williams, che si dimostra incapace di risultare "a fuoco", sullo schermo e nella vita.
Da Woody Allen pretendiamo le folgoranti intuizioni che provengono da piccole metafore come questa.