Venti mesi da finto malato psichiatrico
Venti mesi difficilissimi, passati a fingere di essere malato per sfuggire ai tedeschi. Da “Una città”, mensile di Forlì.
Il diario ho sempre saputo che esisteva. Un centinaio di pagine scritte a macchina ordinate in una cartellina rigida marrone - mio padre era una persona ordinatissima - riposta in quel mobile lì, che era il mobile dove mio padre ha tenuto sempre anche la sua collezione di francobolli. E che avesse tenuto un diario non mi sembrava poi strano. Era un uomo sedentario, con l’hobby, appunto, della filatelia. Ero abituata a vederlo sempre al suo tavolo, in una nuvola di fumo intento a guardare i francobolli o a scrivere e prendere appunti.
Me l’aveva fatto leggere a pezzi. La storia ha dei momenti drammatici, ma anche altri più distensivi, di descrizione di paesaggi, di persone, e lui adattava molto quello che mi faceva leggere alla mia età. Man mano che crescevo mi faceva leggere anche delle altre cose, ma dall’inizio alla fine non me lo aveva mai fatto leggere. Della guerra e anche delle vicissitudini passate insieme a mia madre, me ne parlava, ma mai in modo tragico, credo per non spaventarmi.
Mi raccontava che loro erano scappati, e dato che in un primo momento erano finiti intorno a Biella, in posti che erano anche quelli delle nostre passeggiate, sovente se ne parlava. Quando andavamo al santuario di Graglia, che è stato il loro primo rifugio, guardava quella tal finestra e diceva: "Quella è la finestra della nostra stanza, lì c’era la biblioteca a cui io badavo in modo particolare". Si vedeva che aveva voglia di parlarne, non era restio. Per esempio, mi faceva vedere i documenti di cui era ancora in possesso, i documenti falsi, le tessere annonarie, le ricevute dei conti della clinica in cui erano stati ricoverati. Credo solo che non volesse spaventarmi: voleva raccontarmela come una vicenda che lui e mia madre avevano vissuto, tremenda, terribile, perché non risparmiava gli aggettivi, ma certo non voleva crearmi delle ansie nuove. Quel racconto faceva un po’ parte della mia educazione politica, così come quando mi portava alle manifestazioni del 25 aprile e del 1° maggio. Non perché fosse particolarmente implicato - non era iscritto a nessun partito e mai avrebbe voluto esserlo - però tutto quello faceva parte della nostra storia e un po’ alla volta me lo insegnava.
L’episodio che più mi aveva fatto impressione, e le pagine in cui lo racconta me le aveva fatte leggere quando ero già grandina, era proprio quello del santuario di Graglia, quando erano arrivati i tedeschi. Cercavano ebrei rifugiati e fecero aprire tutte le porte, perquisirono tutte le stanze e alla fine di porte da aprire ne rimaneva solo una, quella della loro stanza, e i preti del santuario a dire che quella era la dispensa e che momentaneamente non trovavano la chiave... I tedeschi si accontentarono della risposta, o capirono e lasciarono perdere, chissà, insomma se ne andarono. Mi ha sempre fatto molta impressione pensare a mio padre e a mia madre chiusi dietro a quella porta, che non potevano respirare perché anche quello faceva un rumore di troppo rispetto a quello che i tedeschi dovevano sentire o intuire. Me li immaginavo in silenzio, paurosi, sentire tutto il tramestio, tutto il colloquio. Credo abbiano vissuto istanti di paura immensa, c’era solo una porta di mezzo e sarebbero stati portati via. Io poi non ho mai immaginato né mio padre né mia madre come particolarmente coraggiosi e, invece, in certi momenti, evidentemente, si trova il coraggio per forza.
Nel diario, poi, la storia dei miei si intreccia con quella di una persona la cui importanza solo in ritardo sono riuscita a comprendere pienamente. All’inizio della televisione, nei primi anni ’60, cominciò ad apparire in video un giovane giornalista che faceva reportage dagli Stati Uniti o da Parigi. Ogni volta che mio padre lo vedeva diceva: "Quello è il figlio di chi ci ha salvato la vita". Io capivo e non capivo, perché sapevo che il padre di Piero Angela era un medico che lavorava nella clinica dove loro erano rifugiati, ma non avevo capito l’importanza che quell’uomo aveva avuto nel salvare i miei genitori, nel proteggerli.
Beh, devo dire che il professor Carlo Angela fu veramente una persona straordinaria. Basti pensare che quando si sparse la voce che in clinica c’erano degli ebrei lui fu chiamato al comando delle SS in via Asti, qui a Torino. Gli chiesero espressamente notizie dei miei genitori, che, evidentemente, erano stati scoperti, e lui giurò che non erano ebrei, che erano malati; li coprì a rischio della sua vita e così, ancora una volta, i miei si salvarono. Certamente, però, così il professor Angela mise in serio pericolo la sua vita, perché mentiva e probabilmente i tedeschi lo sapevano, perché tra i medici e gli infermieri sicuramente c’erano delle spie e le notizie su chi aveva comportamenti strani, sulle degenze lunghissime, uscivano. I miei stettero lì ben venti mesi.
Queste sono delle figure bellissime, che son state sottovalutate, che non hanno avuto alcun riconoscimento. Il padre di Angela è morto nel ’49 e non ha fatto materialmente in tempo a vivere il periodo in cui un po’ di riconoscimenti sono stati dati. Quel che è certo è che queste persone hanno fatto un gran bene nel silenzio più totale; hanno messo a repentaglio la loro vita, la loro tranquillità da agiata famiglia borghese, per salvare la vita di altri. Angela, poi, già da prima era un esponente dell’antifascismo torinese; pare che la sua casa fosse un luogo di ritrovo e di organizzazione dell’antifascismo, ciononostante è poco citato, non si trovano tracce di lui nemmeno nel paese in cui c’è ancora la clinica. Io sono andata a visitarla, ma della storia di quegli anni non c’è più nessuno che si ricordi. Credo che qualcosa andrebbe fatto, che so, intitolare una via...
Ovviamente non avevo mai conosciuto né Piero Angela né sua sorella e solo dopo l’uscita del libro, quando mi sono sentita in dovere di farlo avere a Piero Angela, ho scoperto che lui si ricordava benissimo di quel periodo, della clinica che era la sua casa, dove viveva, e si ricordava dei miei genitori. E proprio attraverso i figli di Angela ho scoperto che le persone nascoste, ebrei o comunque antifascisti, erano tante, non c’erano solo mio padre e mia madre, ma altri gruppi famigliari, che sono stati solo per un periodo e poi se ne sono andati e sono stati deportati.
Fingere una malattia psichiatrica dev’essere difficilissimo, soprattutto in una situazione in cui i medici erano fascisti, e solo il direttore della clinica, Angela appunto, sapeva che mio padre era lì per rifugiarsi. Bisognava fingere bene, farsi venire i sintomi fino al limite del vero, fino a lasciarsi contagiare dalla malattia stessa. Non è come fingere una broncopolmonite, o un mal di pancia. Star chiuso in una clinica psichiatrica, in un paesino del Canavese dove nessuno può venirti a trovare, con nomi falsi, dove da un momento all’altro puoi essere scoperto, con una persona sola che sa la tua situazione, il resto sono fascisti e magari anche spie, dove non puoi andare nella mensa comune perché ciò aumenterebbe ancora la possibilità di essere scoperto, senza poter avere notizie della tua famiglia, senza sapere quando finirà, con le notizie delle rappresaglie...
Mio padre è poi diventato un depresso cronico. Nei primi anni Cinquanta ha dovuto davvero essere ricoverato in una clinica in cui si curavano gli esaurimenti nervosi, così si chiamavano a quei tempi le depressioni. Io non l’ho conosciuto prima e quindi non posso fare il confronto, comunque era una persona estremamente ansiosa. Se è stato un periodo difficilissimo il durante, lo è stato altrettanto il dopo. Si diceva: "Ha un carattere chiuso, ha un carattere nervoso", ma io penso che quei mesi, a differenza di mia madre che aveva un carattere più ottimista, più positivo, non se li sia mai scrollati di dosso, abbia continuato a portarseli dietro. Non è riuscito non dico a dimenticarli, ma ad allontanarsene, a mettere una separazione tra il prima e il dopo. Non credo che fosse una persona di molte parole, che amasse particolarmente il divertirsi neanche prima, quel che è certo è che dopo non lo fece mai: se ne stava sempre chiuso per conto suo, aveva pochi amici, amava leggere, amava scrivere, cose che si fanno da soli. Non amava la compagnia, aveva tutte le caratteristiche di una persona depressa e lo è stata fino alla fine dei suoi giorni.
La collezione? Era una cosa che lui faceva molto seriamente e gli permetteva di fare degli studi, storici soprattutto, perché era una collezione del tutto particolare. Collezionava solo francobolli degli antichi Stati italiani, anzi solo quelli del Regno di Sardegna. Bisogna sapere che i francobolli emessi durante il Regno di Sardegna sono stati, se non sbaglio, diciassette e di questi lui teneva non una, ma due grandi collezioni: una per annulli, cioè per i diversi timbri postali di tutti i Comuni del Regno di Sardegna che voleva dire Piemonte, Liguria, Sardegna, Nizza e Savoia; e una per colori, la qual cosa era da grandi specialisti, perché, a seconda delle tipografie dove i francobolli erano stampati, i colori erano di sfumature diverse. In Italia erano in pochi a fare collezioni di questo genere e si scambiavano non solo i francobolli, ma anche tutta la letteratura in proposito. Quindi mio padre si occupava anche di storia postale e questo gli consentiva di scrivere di storia, di storia di Torino, di storia del Piemonte ed era sempre indaffaratissimo a vedere, rivedere, scambiare, scrivere lettere e leggere quelle che riceveva. Lo ricordo alla domenica, quando non uscivamo insieme, abbandonarsi a rimirare tutta questa sua collezione... E’ stato l’hobby di tutta la sua vita, ma qualcosa di più di un hobby, perché lui ci studiava ed era considerato uno dei pochi esperti in materia.
Ma anche lì c’era qualcosa di particolare, qualcosa che lo vedeva impegnato in modo solitario, tranne in occasione di scambi e di mostre.
Ha sempre tentato di coinvolgermi nella collezione, ma non c’è mai riuscito, per cui è finita venduta. E’ uscita dai cassetti di quel mobile prima del diario.
Quello che mi ha colpito in modo particolare è il fatto che tutto sembrava già previsto per la fuga da casa. Evidentemente mio padre ci pensava da tantissimo tempo a quell’eventualità. Si dice solitamente che gli ebrei son stati colti di sorpresa. Secondo me mio padre, che era uno molto riflessivo, ci pensava già da lungo tempo. D’altronde lui era un impiegato pubblico, stava a Roma quando sono state emanate le leggi razziali nel 1938 ed era stato immediatamente licenziato...
Quindi fin dal ’38 aveva dovuto farci i conti, era dovuto venire via da Roma, andare a Biella in un’azienda di famiglia, dove poteva lavorare. Certamente non è stato colto impreparato: ha saputo procurarsi documenti falsi, le tessere annonarie, il denaro.
A me risulta molto difficile immaginare come una persona da un giorno all’altro possa essere obbligata ad abbandonare la sua casa con poche cose, senza peraltro sapere se e quando potrà mai ritornare.
Io, che sono molto legata alle mie cose, sarei imbarazzatissima a fare una valigia, a riempire una valigetta per scappare. Cosa ci metti dentro? Solo vestiario, anche qualcosa da mangiare, anche un libro, del denaro. E come procurarsi i soldi per vivere durante un periodo che non si sa quanto può durare? Sarei imbarazzatissima: prendi il cappotto o prendi la camicia leggera? Scappi d’inverno, ma poi sai che stai fuori anche d’estate... Insomma, a me questo abbandono della casa mi ha colpito tantissimo, anche perché è poi stata la stessa casa in cui io sono nata e vissuta, perché mio padre riuscì a ritornarne in possesso. Durante il periodo in cui i miei furono clandestini era stata occupata da dei tedeschi.
C’è un mistero in tutta questa vicenda, che nessuno, nemmeno i fratelli Angela, hanno saputo svelare ed è dove mio padre tenesse questo diario durante quel periodo. In fondo la clinica psichiatrica poteva essere sempre rovistata da tutti. Eppure, sul fatto che l’abbia scritto giorno per giorno non ho dubbi, perché tutte le date sono esatte. Prima di pubblicarlo ho fatto le mie verifiche e le date, i luoghi dei rastrellamenti, dei bombardamenti corrispondono, è tutto molto preciso. Questo vuol dire che degli appunti se li è certamente tenuti, dove, non ci è dato di saperlo. Certamente il diario che io ho trovato è una riscrittura, dell’originale non c’è traccia e non se ne parla neanche, quindi io m’immagino dei pezzettini di carta tenuti chissà dove...
Rimpianti, rispetto a mio padre, ne ho tantissimi, perché il mio rapporto con lui è stato estremamente conflittuale, specie quando sono cresciuta e dopo la morte di mia madre, nel 1966. E’ stata malata un anno del morbo di Hodgkin, e mio padre impazziva, perché allora non c’era ancora una cura per questa malattia e la fine era scontata. Per lui la morte di mia madre fu una catastrofe, anche perché si appoggiava molto a lei. Ha cercato di trasferire su di me tutto questo appoggio che mia madre gli dava e io mi sono sempre ribellata a svolgere questo ruolo. Avevo sedici anni, non era certo il momento adatto per starmene tranquilla vicino a un padre che mi avrebbe voluto in casa con sé, sul lavoro con sé, in vacanza con sé, sempre a badare a lui come una moglie. Invece ero una figlia.
Come dicevo, aveva mantenuto questo suo carattere chiuso, triste, per cui diventò molto possessivo nei miei confronti proprio quando io ero in piena ribellione adolescenziale.
Non ci capivamo più e sono stati anni molto duri quelli che abbiamo vissuto insieme. Erano gli anni in cui io facevo l’università e venivo a Torino, cercavo di aprirmi la strada e avevo già abbastanza le idee chiare su quello che volevo fare dopo, mentre lui continuava a stare a Biella, e non stava bene, soffriva molto. Mi dispiace molto, ma non posso dire che gli ultimi anni passati con mio padre siano stati belli...
Mi sembra strano, devo dire, da quando ho pubblicato il libro, parlare così tanto di mio padre. Mi sembra anche di fare un torto a mia madre. Il libro ne parla, ma, tutto sommato, poco, mentre dev’esser stata lei la figura forte della situazione. Era la persona sana che doveva assistere la persona malata, quindi lei poteva fare la sana e certamente, col carattere che aveva, molto più aperto, molto più socievole, contribuì in modo decisivo a tenere in piedi una situazione sempre al limite del crollo. Se ne parla troppo poco nel libro di questo suo ruolo, viene citata poco, anche se sempre con elogi sul suo comportamento di donna forte. Certamente il fatto che sia morta quando io ero ancora giovane mi ha impedito di parlarle di più. Certamente, lei non parlava di questa esperienza, certamente sapeva del diario, ma era un argomento tra me e mio padre, non era un argomento tra me e lei. Non ne abbiamo parlato mai. Per lei era una storia veramente lasciata alle spalle per poter vivere decentemente. E devo dire, fece bene, perché poi, tutto sommato, ha avuto poco tempo.