Trentini in Sudafrica
L’incontro, non sempre facile, con due lontani parenti, un po’ razzisti...
Durante il mio soggiorno a Johannesburg ho avuto modo di contattare due lontani parenti ormai residenti in Sudafrica da una vita. La presenza degli emigrati (non solo italiani) in Sudafrica è una realtà a mio parere molto interessante e da non sottovalutare nel marasma di culture, lingue e colori che compongono la popolazione di questo splendido paese. Lo rendono, con la loro presenza, ancora più affascinante e ricco, ma anche più complesso e soprattutto una realtà che non si può classificare semplicemente come nera, bianca, coloured e indiana, come era la suddivisione perversa prevista dall’apartheid. Non si possono semplicemente incasellare le persone in un’appartenenza, perché si tratta semplicemente del popolo sudafricano che si sforza dicontinuare nel cammino che si è proposto di una "riconciliazione nella verità", riconoscendo le diversità e riconoscendosi in queste quali elementi fondanti della nuova società e delle generazioni future.
Queste due persone, lontani parenti da parte della mia famiglia paterna, marito e moglie, senza figli, vivono a Johannesburg da oltre 40 anni. Lei una donnina ancora molto vivace e aggressiva, indipendente, accanita e convinta fumatrice (nemmeno la forte tosse cronica che si ritrova riesce a farle diminuire la dose di nicotina giornaliera), capace di comunicare in diverse lingue, compreso lo swaili e il portoghese, appassionata e fortunata frequentatrice di casinò (solo le slot machine, non il tappeto verde), capace di seguire in televisione, con forse la stessa appassionata devozione, un’intera partita di cricket (sei ore di diretta TV) e i funerali del Papa. Lui un signore attempato, magrissimo con qualche acciacco di salute e un problema alla vista, sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, gran parte della quale trascorsa in prigionia in Germania, molto legato alla casa, ai suoi animali e alla moglie, senza la quale ormai non potrebbe più vivere.
Nella metropoli si sono stabiliti dopo aver viaggiato per gran parte dell’Africa a sud del Congo, costretti sempre a fuggire a causa della progressivaconquista dell’indipendenza dei vari stati in cui avevano trovato lavoro, con le conseguenti rivolte della popolazione indigena nei confronti dei colonizzatori bianchi di cui loro inevitabilmente erano venuti a far parte. Attraversando il Congo, passando in Tanzania e poi in Zambia e da lì in Rhodesia (oggi Zimbabwe), hanno trovato finalmente un ultimorifugio nel Sudafrica dell’apartheid, dove, ricominciando per l’ennesima volta tutto da capo, non essendo riusciti a portare con sé nemmeno un cambio di vestiti, essendo dovuti fuggire da un giorno all’altro e senza voltarsi indietro, lavorando e facendo grandi sacrifici, dopo aver trovato un primo rifugio a Durban, hanno potuto stabilirsi, comprare una casa in un bel quartiere non molto lontano dal centro di Johannesburg e trascorrere una vita, si fa per dire, tranquilla.
Con la liberazione di Mandela e l’abolizione dell’apartheid erano già pronti al rientro in Italia, dove un appartamento era già stato predisposto per accoglierli nel caso che il cambiamento politico e sociale fosse degenerato in violenza. E invece, nonostante le più pessimistiche attese, la violenza non prevalse, anche perché "Mandela, - come sostiene lei con gran convinzione - anche se negro, è una brava persona".
Così questi due ormai anziani coniugi, apparentemente soli, seduti sotto la pergola del loro giardino (un piccolo paradiso in mezzo alla caotica Johannesburg con un bel prato, i due cani Lorenzo e Lucia, il gatto Gioacchino, le galline, e a dare il benvenuto una Biancaneve sorridente attorniata dai sette nani), mi raccontavano la loro vita avventurosa e imprevedibile, piena di rischi e sempre preparata a iniziare tutto da capo da qualche altra partedel loro errare spesso forzato. I discorsi oscillavano fra i ricordi del lontano passato in Italia, dei parenti, molti dei quali ormai deceduti, ricordi spesso confusi e imprecisi sul loro girovagare in Africa e considerazioni sulla violenza di una città come Johannesburg, che impedisce a due persone anziane come loro di sentirsi sicure di andare a fare una passeggiata nei dintorni, anche se, comunque "il Sud Africa è il migliore di tutta l’Africa e non solo dal punto di vista climatico, nonostante i negri siano bravi solo a distruggere".
Nonostante queste lamentele, la loro casa è l’unica di una via molto lunga, affiancata in tutto il suo percorso da villette mono-familiari, a non essere munita di alti muri esterni con tanto di filo spinato e cavi elettrici pronti a segnalare la presenza di ladri e intrusi. Essi hanno abbracciato l’idea, da me pienamente condivisa (ma dalla maggior parte dei sudafricani di qualsiasi colore considerata irresponsabile), che meno ci si nasconde e ci si protegge, meno si attirano i malintenzionati, che, se decidono di aggredire e rapinare, non si fanno certo fermare da due metri di muro. (Durante il primo periodo del mio soggiorno ritenevo insostenibile vivere in una casa piena di sbarre e con la porta sempre chiusa a chiave, avevo l’impressione di essere prigioniera della mia stessa abitazione, mentre i delinquenti erano fuori, liberi di andare ovunque indisturbati. E’ stato questo forse l’aspetto della mia vita laggiù a cui non sono mai riuscita ad abituarmi fino in fondo).
Io ascoltavo i loro discorsi un po’ammirata, spessodivertita, ma in molti casi anche mordendomi la lingua. Ero ospite di due persone ormai anziane, non mi sembrava il caso di iniziare una discussione sulla discriminazione razziale, anche se mi irritava parecchio sentir parlare della signora di servizio come della "mia nera", come se questa persona non avesse né un nome né una vita propria.
Non mi sentivo certo di condividere le loro affermazioni lapidarie (anche se, soprattutto lei, con aria di sufficienza e superiorità la carità non la nega a nessuno…), ma in qualche modo, tentando di mettermi nei loro panni, sentivo un fondo di comprensione nei loro riguardi. Nella loro percezione, in tutti i posti dove avevano vissuto, sentivano di aver contribuito a portare la "civiltà" in posti selvaggi e ogni volta, a causa dei neri, avevano visto distruggere tutto ciò che erano riusciti a costruire e realizzare e si erano visti costretti ad abbandonare tutto e a fuggire, ricominciando in un altro paese, senza per questo perdere la speranza e la volontà d’animo. Potevo quindi in fondo comprendere, anche se non condividere, il loro risentimento nei confronti dei neri che, non apprezzando il loro contributo alla civilizzazione del paese, non sapevano fare altro che "distruggere", perché non hanno la "cultura". E poi come potevo avviare una discussione con delle persone che, pur avendo una larga cerchia di amici e conoscenti "giudei" ("però tutti delle gran brave persone"), tengono in cucina un portachiavi in bronzo con il profilo inconfondibile del duce e, poco distante sul calendario, un santino di Padre Pio?
I ricordi del passato e dell’Italia erano sempre una costante dei nostri incontri, soprattutto delle mie chiacchierate con la moglie: ricordi pervasi dalla nostalgia dei parenti lontani, ma mai intaccati dal rimpianto o dalla voglia di tornare, spaventati dal freddo invernale che li avrebbe attesi a Trento (mentre in Sudafrica le temperature anche nei mesi più freddi sono invece piuttosto miti).
Tutto sommato, sembrano continuare la loro vita senza che le problematiche del popolo sud africano li sfiorino, a parte il fatto di essere rimasti senza linea telefonica per un mese perché i delinquenti di turno avevano rubato i cavi del telefono.
D’altronde a Johannesburg si ruba tutto ciò che si può trasportare, dai cassonetti della spazzatura fino alle coperture dei tombini sulle strade, con grave pericolo del pedone distratto che non sta attento a dove mette i piedi.
Alla mia partenza mi hanno salutata con tanto affetto e calore, non mi hanno affidato pacchi e regali, ma solo il compito di portare un saluto affettuoso ai loro familiari.