Piccoli crimini coniugali
Il lavoro di Eric-Emmanuel Schmitt, per la regia di Sergio Fantoni, ci offre uno scavo psicologico sottile, profondo, godibile.
Quello di Eric-Emmanuel Schmitt è un "teatro di parola" filosofico. Scava nell’intimo di ragione e sentimento, con rare concessioni all’esistenzialismo; inscena dettagli impercettibili, senza spiegazioni o sottolineature. Tocca a noi rintracciarli, dar loro un filo logico, gustarli in disparte. Lisa, ad esempio, si lascia sfuggire espressioni in tedesco; con un metodo Stanislavskij al contrario, ricostruiamo che è la lingua con cui parla al marito nei momenti di complicità.
Il lavoro è sullo spettatore non sull’attore: dalla platea, immaginiamo il non detto, il non mostrato. Su silenzi e bugie si basa il gioco-esperimento che ci permette di sopravvivere, anche a noi stessi. Gilles simula un’amnesia per capire chi sia agli occhi della moglie. Perché ha tentato di ucciderlo? Davvero "la coppia è una libera associazione di assassini"? L’ha scritto lui in "Piccoli crimini coniugali", il poliziesco odiato da Lisa… in dubbio è chi dei due resterà in vita. Si passa così dalla finzione letteraria alla realtà (che è però finzione teatrale), mentre i coniugi rivivono il primo incontro e la notte dell’incidente, ribaltando verità e punto di vista. Riavvolgono il nastro di questo tempo ritornante, finché la recita - il passato - si sovrappone, indistinguibile, al presente. La coppia è un’entità schizofrenica con due cervelli all’opera, ma funziona. Gilles scala Lisa come una vetta solitaria, raggiunge il suo "sguardo antico, di almeno duemila anni, in un corpo vibrante". Lei è gelosa, ignora col suo "amore bestiale" che quello duraturo conosce il rischio, supera le crisi; quello passeggero non ne ha tempo né bisogno, è più sicuro.
La pièce, affidata a due attori, non prevede interferenze esterne: niente amici, vicini di casa, persino i medici che hanno curato Gilles restano figure senza nome evocate qua e là dai Sobiri, quasi la coppia fosse un sistema chiuso, impermeabile.
La costruzione è ad anello: in apertura, Lisa entra in casa, seguita da Gilles, e accende le luci; in chiusura, Gilles, rimasto solo, le spegne finché la moglie ricompare sulla soglia. La specularità non è totale per il breve dialogo che segue, in cui entrambi si dichiarano con le stesse parole d’un tempo.
Sergio Fantoni, grazie a una solida e piuttosto agile regia, mostra di conoscere a fondo i mezzi espressivi del teatro e quelli più adatti ad allestire Schmitt. Scene, costumi e luci di Bovey sono funzionali, realistici, mai ridondanti, come lo sfondo musicale di Picco. Inoltre, di là dal buon livello recitativo di Giampiero Bianchi e Andrea Jonasson, spicca l’accento straniero di lei, un amabile tocco di classe. Il tutto dà all’allestimento la profonda, sottile leggerezza dell’autore che ci guarda dentro come un analista.